Maribé Ruscica
In Bolivia è stata approvata, lo scorso luglio, una legge che consente ai bambini di entrare nel mercato del lavoro sin dai dieci anni. Malgrado le critiche di organismi internazionali, la legge ha avuto l’apprezzamento del movimento dei “Nats” (Niños, Niñas y Adolescentes Trabajadores, Bambini, bambine e adolescenti lavoratori) che sin dal 2010 reclamava che si stabilisse un’età minima di ingresso nel mondo del lavoro sulla base della realtà del Paese, il più povero dell’America Latina.
Estrema povertà. L’estrema povertà, nella quale vive il 37% della popolazione, fa sì che siano esposti al rischio dello sfruttamento bambini perfino di sei-otto anni. Secondo un rapporto della “Associazione Cuna”, il 45% della popolazione economicamente attiva in Bolivia è rappresentato da bambini e adolescenti tra i 7 e i 17 anni e che uno su tre bambini e adolescenti deve lavorare per vivere. Si parla di 845mila bambini. Ottocentomila lavorerebbero per le strade, come lustrascarpe, ambulanti e varie altre attività. Il resto nelle miniere e nel raccolto della canna da zucchero e di castagne. In Bolivia si accusano gli organismi internazionali di analizzare con rigidezza solo gli effetti e non le cause del lavoro minorile, tra le quali c’è soprattutto una povertà strutturale che ha spinto migliaia di contadini e indigeni a migrare dalla campagna verso le città. Il presidente della Conferenza episcopale boliviana, monsignor Oscar Aparicio, all’apertura dell’Assemblea plenaria, la settimana scorsa, ha affermato che sebbene “ci siano ragioni per l’ottimismo e la speranza” occorrono “proposte strutturali e sostenibili di fronte al dramma della povertà persistente”.
Posizioni divergenti. Dunque, in Bolivia c’è chi difende il lavoro infantile considerandolo una necessità di fronte alla precarietà economica delle famiglia, ma mette in guardia dai pericoli del lavoro forzato, della schiavitù e dello sfruttamento dei bambini. La proibizione del lavoro infantile – affermano – finirebbe per penalizzare e trasformare in clandestino il lavoro minorile, incrementandone i rischi. Tra i sostenitori di questa tesi, anche quella del presidente della Bolivia, Evo Morales, che si vanta di avere lavorato sin dai 4 anni insieme a suo padre, come pastore di lama e di essere arrivato lo stesso alla presidenza del Paese. Ma c’è anche chi difende il diritto dei bambini a frequentare la scuola. “Uno dei principali debiti sociali della società boliviana sono i diritti dell’infanzia”, ha affermato il rappresentante dell’Unicef in Bolivia, Ludwig Guendel, nel 2010 in occasione della presentazione di un rapporto sulla situazione mondiale dell’infanzia. “Nelle miniere della Bolivia lavorano più di 100mila bambini”, ha denunciato quest’anno il vescovo emerito di Palencia (Spagna), Nicolas Castellanos (che nel 1991 rinunciò alla sua diocesi per andare in missione in Bolivia) nel corso di una conferenza stampa sulla povertà nel mondo, tenuta a Santander nel mese di giugno. “Quando Morales è arrivato alla presidenza, pensai che provenendo da un mondo povero avrebbe lavorato per ridurre la povertà, ma non è stato così”, ha sottolineato il presule.
Politiche di inclusione sociale. La Costituzione boliviana sancisce che i minorenni non siano oggetto di sfruttamento e che le attività che li riguardano abbiano come oggetto la loro formazione integrale. La “Fondazione Arco Iris”, creata nel 1994 a La Paz dal sacerdote d’origine tedesca Josè Marìa Nevenhofer, è stata pioniera nell’opera in favore dei bambini che vivono e lavorano nelle strade o che hanno i genitori in carcere. In una recente riunione regionale dell’Ilo a Lima (Perù) per i paesi dell’America Latina e i Caraibi, è stata lanciata un’iniziativa contro il lavoro minorile, volta al suo sradicamento entro il 2020. Forse si cominciano ad analizzare le cause del lavoro minorile – l’estrema povertà e la migrazione cui sono costrette tante famiglie delle aree rurali dell’America Latina – per realizzare finalmente politiche di inclusione sociale.
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