“Mai un Paese ha concesso la cittadinanza a un numero così grande di persone che si erano rifugiate sul suo territorio”. Joyce Mends-Cole è la rappresentante in Tanzania dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) e da Dar es-Salaam, principale città del Paese, commenta così la “decisione storica” presa nelle scorse settimane dal governo: concedere la cittadinanza e i pieni diritti a oltre 162mila rifugiati del Burundi che dal 1972 si trovavano nel Paese, ai loro figli e ai nipoti nati nel frattempo, che fanno salire il totale a oltre 200 mila persone.
Dopo quarant’anni. “Questa settimana – spiega al Sir Mends-Cole – cominceremo a distribuire agli ex-rifugiati i certificati che attestano il loro nuovo status e l’intera procedura dovrebbe essere completata ad aprile del prossimo anno”. L’attesa più che quarantennale dei burundesi, prevalentemente di etnia hutu, fuggiti dal loro Paese durante una delle periodiche esplosioni di violenza politica degli scorsi decenni, è dunque ormai finita. Negli ultimi anni, tuttavia, fattori politici e burocratici erano sembrati in grado di bloccare la loro naturalizzazione, il cui iter era cominciato nel 2008 e si era concluso ufficialmente nel 2010. L’ottenimento della cittadinanza, allora, era però stato sottoposto a una condizione: gli ex rifugiati avrebbero infatti dovuto abbandonare le aree in cui vivevano, nelle regioni occidentali di Tabora e Katavi, ed essere ‘riassegnati’ dal governo ad altre zone, per non creare un’enclave burundese in territorio tanzaniano. Questa incertezza giuridica, però, ha spinto molti rifugiati a non iscrivere i propri figli alle scuole locali e a smettere di curare le attività iniziate negli insediamenti, temendo di doverli lasciare. Ma ad ottobre il presidente tanzaniano Jakaya Kikwete ha lasciato cadere la richiesta di abbandonare le proprie case, confermando per il resto la decisione del 2010. Un riconoscimento anche del fatto che l’integrazione di queste persone in territorio tanzaniano, in effetti, era da sempre stata diversa da quella a cui si assiste in molti casi analoghi. All’epoca del loro arrivo il Paese era guidato dal padre dell’indipendenza dell’ex colonia britannica di Tanganica (a cui si era unito l’arcipelago di Zanzibar), Julius Nyerere. Insegnante per formazione, uomo di cultura e cattolico praticante, Nyerere – di cui ha mosso i primi passi la causa di beatificazione – era convinto che nessun africano dovesse vivere da profugo in un Paese del continente. Quindi concesse ai nuovi arrivati di abitare alcuni villaggi e li definì “visitatori residenti”, anche se per la legge internazionale avevano lo status di rifugiati.
Protagonisti dello sviluppo agricolo. I burundesi furono presto protagonisti anche dello sviluppo agricolo dell’area: gli insediamenti contribuirono persino alle esportazioni di tabacco e caffè. Da parte sua lo Stato, in quattro decenni, ha sempre continuato a fornire i servizi scolastici e sanitari e le Nazioni Unite alcuni di quelli di base. Non per questo va sottovalutato l’impatto della naturalizzazione appena riconfermata sulle vite degli ormai ex-rifugiati, nota Mends-Cole: “Fino alle scorse settimane, in un certo senso, queste persone non sapevano quale fosse la loro identità, ora hanno libertà di movimento e quindi di vita e i loro insediamenti ricadranno sotto la giurisdizione delle normali autorità civili: quindi tutti potranno votare, lavorare, spostarsi, avere diritti sulla terra, che in Tanzania appartiene allo Stato ma può essere data in concessione per periodi più o meno lunghi”. Alcune situazioni, però, restano ancora da definire, come quella dei bambini nati tra 2008 e 2010 (tra i 14mila e i 16mila, che andranno censiti prima di poter ottenere la cittadinanza). In sospeso resta anche lo status di quanti avevano scelto volontariamente di rientrare in Burundi invece di essere naturalizzati, ma poi non avevano potuto farlo per diversi motivi. “Infine, crediamo sia una forma di giustizia anche dare qualche forma di sostegno alle comunità accanto a cui vivono questi ex-rifugiati, in modo che non si creino confronti o invidie”, conclude la funzionaria Onu, pur notando che – in linea con la tradizione di convivenza pacifica della Tanzania – “da parte delle popolazioni locali non c’è ostilità nei confronti di queste persone”.