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Il caso del Bangladesh: allevare gamberetti e distruggere l’ambiente

PaggiDi Michele Luppi

Forse in pochi se ne saranno accorti, ma la confezione dei gamberetti surgelati che teniamo nel vostro “freezer” potrebbe portare la dicitura: made in Bangladesh. Sì, perché il Paese asiatico che si affaccia sul golfo del Bengala, è divenuto negli ultimi vent’anni il settimo esportatore mondiale del crostaceo dopo giganti come India, Indonesia e Thailandia. Un primato non privo di conseguenze sull’ambiente e sulla vita delle popolazioni locali come denuncia padre Luigi Paggi, missionario saveriano da quarant’anni nel Paese. “Per poter introdurre questo tipo di produzione – racconta padre Luigi – intere aree destinate alla coltura del riso, sono state inondate di acqua marina. In breve tempo il sale è penetrato nella terra intaccando la falda acquifera e danneggiando i campi utilizzati per le coltivazioni”.
 
Una molla per la crescita. L’industria dell’allevamento dei gamberi si è sviluppata in Bangladesh a partire dagli anni Ottanta, diventando una delle principali fonti di moneta forte del Paese con ricavi, dalle sole esportazioni, di 200 milioni di dollari all’anno. Una crescita favorita dal governo di Dacca e sostenuta anche dalla Banca Mondiale che ha visto in questa risorsa uno strumento per lo sviluppo. Questo ha fatto sì che, in due decenni, le terre inondate dal mare si siano estese su 150mila ettari: una superficie corrispondente a quella di Svizzera e Austria. Tra queste anche il distretto di Khulna dove vive padre Paggi: “Nelle zone a ridosso delle aree inondate non è possibile coltivare, per la presenza di sale nella terra, e questo obbliga ad importare dall’entroterra le derrate alimentari presenti nei mercati. Il problema maggiore resta però quello dell’acqua: le falde sono inutilizzabili e questo ci costringe a consumare l’acqua piovana. Fortunatamente le precipitazioni qui sono numerose, ma nei tre mesi secchi (aprile, maggio e giugno) le donne devono fare lunghe camminate per andare ad acquistare l’acqua potabile”.
Quale sviluppo per il Bangladesh? Un disastro ambientale che si perpetua da anni in un Paese che gli economisti descrivono come ricco di potenzialità e attrattivo per gli investimenti internazionali. “Il Bangladesh – continua padre Luigi – ha conosciuto una crescita in questi ultimi anni, soprattutto da un punto di vista infrastrutturale: le strade sono state ammodernate, l’elettricità è arrivata anche nelle zone più isolate e la telefonia è ormai diffusissima. Ma si tratta di uno sviluppo caotico, ben sintetizzato dalla confusione delle grandi aree urbane”. Un sovraffollamento delle periferie che è stato alimentato anche dalle conseguenze negative dell’industria dei gamberetti che, indebolendo l’agricoltura nelle regioni costiere, hanno portato all’emigrazione di milioni di persone.
Denunce inascoltate. Non sono mancate in questi anni le voci di protesta da parte di missionari, associazioni e giornalisti, alcuni dei quali hanno pagato con la vita le loro accuse, ma la situazione non è cambiata. Secondo gli esperti la situazione non sarebbe però irrimediabile: basterebbe porre fine alle inondazioni con l’acqua salata per alcuni anni, dando il tempo alle piogge monsoniche di ripulire la terra. “Basterebbero pochi anni per poter tornare a coltivare e a bere l’acqua della falda – conclude il missionario – ma manca la volontà politica di risolvere la situazione. Questa devastazione continua perché ci sono forti interessi economici dietro la coltivazione dei gamberetti. A beneficiarne sono soprattutto gli investitori che vivono nelle città, con stretti legami con il mondo politico locale e nazionale. Persone che affittano o comprano la terra dai contadini e, vivendo lontani, sono interessati solo ai profitti perché non pagano le conseguenze ambientali delle loro azioni”.