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Noi, contemplative siamo “scomode”

Di Cristina Dobner

Emancipazione della donna, parità, femminismo, quote rosa… e chi più ne ha più ne metta. Quanto hanno a che vedere con la donna monaca claustrale? Ben poco si direbbe, forse addirittura in netta contraddizione.
Una vita spesa in un perimetro fisico e geografico, senza uno scopo sociale o un’incidenza diretta sui gravi problemi attuali: dal soccorso ai migranti, ai senza tetto, ad ogni povero che tenda la mano o abbia bisogno di vicinanza per giungere a sera, non suscita un sentire che, anche a definirlo urbanamente, si avvicina al rifiuto per mancanza di sensibilità, di solidarietà umana?
Questa è un’ottica che colloca il suo focus esternamente. Proviamo a collocarlo internamente?
Dove però? Nella fede viva, altrimenti tutto si apparenta ad una sorta di misoginia e di misandria, nel prendere cioè le distanze dai propri simili e guardarli da lontano: per non sporcarsi le mani?
Indubbiamente, noi monache contemplative risultiamo scomode, suscitiamo interrogativi che non trovano immediata utilità in un contesto sociale dove conta solo chi produce e che cosa produce.
Noi non contiamo nulla e nulla produciamo.
Ci spendiamo così, semplicemente. Canta il poeta R. M. Rilke:

Non attendere che Dio su te discenda
e ti dica “Sono”.
Senso alcuno non ha quel Dio che afferma
l’onnipotenza sua.
Sentilo tu nel soffio, onde Egli ti ha colmo
da che respiri e sei.
Quando non sai perché t’avvampa il cuore:
è Lui che in te si esprime.

Noi lasciamo che Egli si esprima nel vortice del nostro secolo. Lasciamo che Egli tocchi tutta la dimensione della nostra tormentata storia, le imprima un senso e porti tutti a credere nel Creatore, perché memori di una lapidaria espressione di Agostino, affermiamo: “Toccare con il cuore, questo è credere”.
È il senso recondito della nostra ubiquità, nella nostra silente e nascosta presenza in ogni luogo, in ogni persona, in ogni sofferenza e in ogni gioia.
Non perché contiamo noi ma perché conta la Presenza di Colui al quale vogliamo essere trasparenti e che vogliamo trasparisca.
Questa postura non conosce ruggine o intaccamento di usura dai secoli perché si radica in Dio stesso, nella Sua azione salvifica per l’umanità intera: lasciarsi percorre dalla “passione dell’amore”, che già Origene aveva puntualizzato. Resa punta e vertice di un’esistenza ma anche tessuto connettivo indistruttibile, perché apre la persona all’Infinito, le indica la sua meta, la rende partecipe di una corrente di salvezza che travolge.
In un perimetro. Nella solitudine. Nel silenzio. Non bomba d’acqua distruttiva ma corrente vivificante.

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