La recente pubblicazione del libro “Le malattie della fede. Patologia religiosa e strutture pastorali” (EDB), che raccoglie i contributi di Giuseppe Crea, Leslie J. Francis, Fabrizio Mastrofini e Domenica Visalli, è occasione per porre l’attenzione sul rapporto tra credo religioso e psicologia della religione. In alcuni paesi anglosassoni, lo studio e le ricerche in questo campo hanno già maturato una certa tradizione e con i loro risultati hanno concretamente aiutato le strutture pastorali delle chiese a riorientarsi per divenire sempre più luoghi di maturazione umana, individuale e collettiva. In Italia invece questo percorso appare in ritardo, non essendo mai stato affrontato in modo sistematico e compiuto. Ecco l’opinione di uno degli autori, il prof. Leslie J. Francis, pastore anglicano, psicologo e docente di Religioni e Pedagogia all’Università di Warwick (Regno Unito), presente a Roma in questi giorni per un seminario di studi sul tema.
Professor Francis, di cosa si occupa specificamente la psicologia della religione?
“Fondamentalmente, si occupa sotto il profilo psicologico del vissuto religioso delle persone, senza toccare mai il livello intimo dell’adesione alla fede. Naturalmente, ci sono scuole psicologiche diverse. Il mio approccio parte dall’interrogarsi sui possibili benefici che la Chiesa può trarre da una seria acquisizione dei dati della psicologia religiosa. Ho iniziato come prete e mi sono addentrato nella psicologia per provare a rendere la mia Chiesa più consapevole sia riguardo a ciò che già sta facendo bene, sia a ciò che deve fare meglio”.
Che rapporto esiste tra teologia e psicologia della religione?
“La psicologia si occupa della mente e del comportamento umano. Da un’altra angolatura, anche la teologia si occupa della mente e del comportamento umano. Uno dei principi fondamentali della teologia cristiana è la visione dell’essere umano creato ad immagine e somiglianza di Dio. Assumere con piena consapevolezza questa verità, dà alla Chiesa la grave responsabilità di prendersi cura con impegno degli esseri umani e, quindi, anche della mente umana, perché guardando alle creature si possono cogliere molte informazioni, quasi una rivelazione sulla natura del creato. La storia del dialogo tra psicologia e teologia non è stata sempre una storia positiva. La psicologia spesso è stata inutilmente critica nei confronti della religione e la religione è stata inutilmente sospettosa nei confronti della psicologia. Quello che io ho provato a fare è realizzare un’interazione positiva fra le due discipline per una sinergia costruttiva, dal momento che entrambe, ciascuna con i propri strumenti, cercano di aiutare gli esseri umani a realizzare ciò che Dio ha voluto nel disegno della creazione”.
In che modo il credo religioso rappresenta una componente importante del benessere psicologico globale della persona?
“Una delle cose in cui credo di più come psicologo è la connessione esistente tra ciò che le persone pensano di Dio, di se stesse e degli altri. Chi ha maturato un’idea di Dio sbagliata, può in modo simile sviluppare un’idea sbagliata di se e degli altri. La tradizione cristiana ha sempre mantenuto un equilibrio tra una visione di Dio orientato alla ‘misericordia’ e un Dio votato alla ‘giustizia’ e al ‘giudizio’. Questo equilibrio è cruciale per un corretto sviluppo umano. Le persone che hanno un’idea di Dio esclusivamente orientato alla giustizia e al giudizio, di solito sperimentano forme di angoscia e disagio interiore e tendono a proiettare anche negli altri questi stessi stati d’animo. I cristiani, che credono in un Dio di amore e di misericordia, probabilmente saranno più indulgenti con se stessi e con gli altri. Esiste insomma un reale legame, scientificamente provato, tra immagine di Dio che interiorizziamo, immagine di sé e immagine degli altri”.
Come potrebbe la pastorale concreta (diocesi, parrocchie, movimenti, ecc…) beneficiare del contributo della psicologia della religione?
“L’approccio psicologico che adotto, utilizzando la ‘teoria dei tipi psicologici’, se applicato con scrupolo e metodo, è in grado di procurare almeno due benefici principali alla Chiesa. Primo, permette di indagare a fondo sul reale benessere psicologico dei preti e dei religiosi, permettendo di intervenire su eventuali lacune o difetti. La loro serenità interiore poi si ripercuote anche sulla capacità di aiutare le persone loro affidate, testimoniando così la missione di Dio con più efficacia. Secondo, l’applicazione di questo strumento alle persone laiche con responsabilità pastorali. Anch’esse, che fanno pienamente parte della Chiesa, possono infatti diventare sia la chiave per le persone che vogliono entrare nella comunità, sia una barriera per quelli che in un momento di smarrimento vorrebbero abbandonare l’esperienza”.