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Sull’immigrazione i vescovi americani a fianco di Obama

Di Damiano Beltrami

La Conferenza episcopale americana ha accolto con favore il decreto del presidente Barack Obama che in sostanza regolarizza almeno quattro milioni di immigrati senza documenti, in gran parte ispanici e cattolici. I vescovi Usa, però, hanno anche sottolineato che questo è solo un primo passo in avanti e resta necessaria una riforma strutturale da parte del Congresso. “Chiediamo da tempo e con insistenza”, spiega monsignor Eusebio Elizondo, vescovo ausiliario di Seattle e presidente del Comitato nazionale sull’immigrazione, “che l’Amministrazione faccia tutto ciò di cui è legittimamente in grado per portare sollievo e giustizia ai nostri fratelli e sorelle immigrati. Come pastori vediamo positivamente ogni iniziativa tesa a proteggere gli individui e che permetta ai migranti di riunirsi alle loro famiglie”. “La Chiesa cattolica – puntualizza monsignor Elizondo – ha una lunga storia di accoglienza dei poveri, degli emarginati e degli svantaggiati”.

Il decreto: stop alle deportazioni. L’executive order di Obama in sostanza consente a quattro milioni di immigrati senza documenti che hanno vissuto negli Stati Uniti per almeno cinque anni di evitare la deportazione, e permette a quelli con la fedina penale pulita, di lavorare legalmente in America. Un altro milione di immigrati sans-papier riuscirà a non essere deportato grazie ad altri articoli della norma presidenziale, tra cui l’ampliamento del programma “Dreamers”, che riguarda gli immigrati arrivati in America da bambini. Inoltre, con il decreto, il presidente Obama ha aumentato i fondi per la sicurezza delle frontiere al fine di respingere i migranti che hanno attraversato di recente il confine.

Ultima opportunità. Il direttore del dipartimento di politiche sull’immigrazione della Conferenza episcopale americana, Kevin Appleby, dal canto suo sostiene che il decreto presidenziale era “l’ultima chance” per mantenere fede alla promessa di mettere in sesto un sistema che non funzionava da tempo. Per Appleby, infatti, “se Obama avesse temporeggiato ulteriormente su questo versante gli attivisti avrebbero alzato molto la voce”. Anche perché quello ispanico è il gruppo etnico che “ha fatto la differenza”, permettendo a Obama di vincere le elezioni del 2008 e del 2012, e sarà determinante anche alle prossime presidenziali del 2016. Del resto, se nel primo mandato di Obama la grande riforma è stata quella sanitaria, nel secondo doveva essere quella dell’immigrazione, che però, una volta approvata in Senato, si era impantanata alla Camera.

Riforma strutturale.
Adesso i vescovi americani chiedono però una riforma strutturale, perché il decreto è ritenuto una misura d’urgenza e non è sufficiente per sanare un sistema migratorio inceppato. “Sono felice che un sollievo temporaneo sia stato dato a genitori e bambini immigrati che vivevano nella paura quotidiana di essere arrestati e espulsi. Tuttavia il sollievo non è permanente e i problemi non sono ancora risolti”, ha detto monsignor José H. Gomez, vescovo di Los Angeles e autore del recente libro “Immigration and the New America”. Gomez ritiene insomma che la misura vada nella direzione giusta, quella delle famiglie e della valorizzazione delle persone, della “creazione di un iter di legalità che rispetti la dignità umana”, ma ha sottolineato che tutto questo non basta.

Una storia di accoglienza. Dagli ambienti più graniticamente conservatori sono giunte critiche ai vescovi per l’impegno diretto sul terreno dell’immigrazione. A loro Appleby ha risposto che “la Chiesa cattolica difende i diritti degli immigrati da sempre e a ogni latitudine. Dimenticarsene avrebbe significato tradire le sue radici”. “Dopo tutte le ondate migratorie in America”, ha precisato Appleby, “prima quella irlandese, poi quella italiana, e più recentemente quella ispanica, per citare solo le più massicce, i vescovi difendevano i diritti degli ultimi arrivati, di cui erano in pochi a curarsi. La Chiesa ha sempre posto l’accento su come questi gruppi arricchissero il Paese di nuove energie e competenze. E senza dubbio la Chiesa non si sbagliava”.

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