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In Turchia la “koinonia” ha il profumo delle origini

Di Cristiana Dobner

Turchia, “ponte naturale tra due continenti e tra differenti espressioni culturali” ha detto Francesco. Nazione oggi di approdo per profughi e migranti: “La Turchia in questo momento è testimone, è quella che dà aiuto a tanti rifugiati delle zone in conflitto, e la ringrazio per questo servizio”.
La reazione immediata, forse plebea ma non astratta, quando si nomina la Turchia può essere una notevole spia del nostro immaginario, da “mamma li turchi!” alla bellezza del Bosforo, dalle danze dei dervisci agli incantevoli e brulicanti mercati.
Un cristiano deve però attingere a vene più profonde, alla stessa Scrittura e alla tradizione dei primi anni della nascente cristianità: il profumo delle origini.
Questi sono i segni che dobbiamo percepire. Come farlo?
Sulla terra in cui si respira la presenza di Paolo apostolo e dove ci viene indicata la prima grotta, detta di San Pietro, che vide raccolti quei primi cristiani anelli nella trasmissione della fede, noi, oggi, sostiamo oranti.
Le orme geografiche non indicano solo luoghi, quanto si vuole ameni, ma luoghi diventati luoghi teologici e di reale vita teologale: i passi dei grandi evangelizzatori li hanno calpestati e sul loro suolo hanno disseminato la Parola del Padre, il Signore Gesù. A Tarsus Paolo nacque, ad Iconio, oggi Konya, vi giunse insieme a Barnaba; a Antiochia, città romana della Pisidia, l’Antakya odierna, per la prima volta i discepoli del Nazzareno furono chiamati cristiani.
Dal porto di Pieria, Paolo salpò per il suo primo viaggio apostolico, ad Efeso visse per tre anni. Giovanni vi portò Maria ed oggi noi conosciamo il santuario di Meryemana (Casa della Madonna), mentre Pergamo è la città dell’Apocalisse.
Terra, quindi, dei nostri primi grandi “rematori” della Parola, come ci tramanda la Scrittura e dove transitarono i grandi testimoni.
Possiamo declinare tutta la chiesa degli Atti degli Apostoli ma anche procedere oltre, nei secoli, con la grande fioritura del monachesimo della Cappadocia.
Attualmente terra venata dall’Islam, dove i cristiani sono minuscolo lievito e pochi sono gli ebrei.
Tre religioni che si appellano al comune Padre Abramo e che devono trovare la loro trasparenza originaria per riconoscersi “come fratelli e compagni di strada, allontanando sempre più le incomprensioni”, per poter favorire “la collaborazione e l’intesa”. Indubbiamente già su di un piano umano, in cui a ciascuna persona è garantita la vita e il rispetto per le sue scelte ma più profondamente perché “la libertaÌ religiosa e la libertaÌ di espressione, efficacemente garantite a tutti, stimoleranno il fiorire dell’amicizia, diventando un eloquente segno di pace”.
Destino – inteso in senso di tensione di un piano provvidenziale dell’Altissimo – di una terra, solcata da tre diverse strade che, pur partendo dall’unico Padre, tuttavia si dipartono e si concretizzano in modelli di vita diversi e anche divergenti che non devono fagocitarsi l’un l’altro ma aprirsi a spazi di comunione.
Turchia, luogo di origine, da cui può scaturire sempre l’acqua viva non della tolleranza, ancora dimensione di pochezza e di sufficienza, ma di autentica “koinonia” che sappia rispettare le coscienze personali, le storie in cui affondano le radici delle diverse comunità, perché il vissuto possa davvero risultare armonico.
Il discorso non poggia su vantaggi economici, rinomanze sociali, non cerca personaggi rampanti, si rivolge a chiunque abbia sperimentato in se stesso la presenza dell’Altissimo e sappia guardare agli altri con occhi nuovi e generi uno sguardo che a Lui conduca.
Non parole ingenue o vagamente balsamiche per lenire i troppi strappi o addirittura le ferite, ma certezze di cammino che non può ridursi ad una sola forza, anche se deve passare per la propria persona disposta ad affrontare un comune quotidiano senza prevaricazione: luoghi di culto prima cristiani e poi musulmani oppure prima ebrei e poi cristiani e poi ancora musulmani. Tendiamo ad appropriarci di quanto non ci appartiene, qualunque sia la nostra coscienza religiosa, e invece spetta solo al Creatore che irrompe nel cuore di ciascuno.
Francesco non si è adeguato ad una norma di protocollo o di pseudo galateo, si è scalzato per somma riverenza e ha lasciato prorompere il suo grido muto nel silenzio della moschea.
L’abbraccio dei due fratelli, Francesco e Bartolomeo, non è una posa, è un sigillo e un auspicio, si sono ritrovati per camminare insieme: in un capo chinato e in un bacio di ritrovata fraternità.

Redazione: