“Se non sostieni l’ideologia di Boko Haram e le loro azioni, il gruppo ti considera un nemico”, indipendentemente dal fatto di essere cristiano o musulmano. È questa la prima osservazione di padre Patrick Tor Alumuku, portavoce della diocesi di Abuja, capitale della Nigeria. Mentre risponde alle domande, si stanno ancora svolgendo le operazioni di soccorso intorno alla grande moschea di Kano, dove un attacco della setta fondamentalista, venerdì 28 novembre, ha provocato un numero di morti ancora imprecisato, ma certamente superiore a cento. “L’attacco è avvenuto perché nei giorni precedenti i leader religiosi islamici, dopo un incontro, hanno affermato che Boko Haram non aveva il sostegno dei musulmani locali”, spiega ancora padre Alumuku.
Fuga di massa. Quello di Kano, tuttavia, non è stato l’unico attacco avvenuto la settimana scorsa: altri hanno preso di mira varie località del nordest, dove il gruppo fondamentalista è forte malgrado mesi di presenza dell’esercito e l’imposizione, a maggio 2013, di uno stato d’emergenza su tre regioni amministrative, quelle di Borno (dove si trova Maiduguri, a lungo considerata la roccaforte degli estremisti), Adamawa e Yobe. Negli stessi giorni, però, il Parlamento, dopo un dibattito teso che ha visto entrare in aula anche reparti della polizia antisommossa, ha rifiutato di prorogare ulteriormente la misura che l’opposizione, in particolare, ha definito “un fallimento”. In effetti le azioni di Boko Haram non si sono mai fermate: a metà ottobre un rapporto dell’Unhcr notava che gli attacchi dei miliziani, sempre più diretti verso luoghi come “mercati, ospedali e scuole” avevano provocato “danni gravi a strutture civili, con ponti, case e interi villaggi distrutti”. Anche il comportamento dei militari inviati dal governo è finito più volte nel mirino di organizzazioni non governative come Human Rights Watch e Amnesty International, che hanno accusato di abusi le forze di sicurezza e le milizie locali che in alcuni casi affiancano le truppe. Indipendentemente dallo stato di emergenza, però, le condizioni dell’area sono gravissime: attentati, rapimenti di massa e combattimenti hanno spinto migliaia di persone alla fuga, riferiscono ancora le Nazioni Unite. Dalla sola città di Damassak, colpita dai fondamentalisti il 22 novembre, 3mila persone sono scappate nel vicino Niger, portando il totale di chi si è rifugiato in questo Paese oltre le 100mila unità. A questi si devono aggiungere i 2.800 che si sono rifugiati in Ciad e i 44mila nigeriani assistiti in Camerun. Ma Boko Haram, ricorda ancora il rapporto dell’Unicef, sembra essere capace di colpire “anche obiettivi in territorio camerunense, costringendo i civili a fuggire ancor più verso l’interno”.
Mobilitazione umanitaria. Gli sfollati interni, invece, sono ormai 700mila e la situazione è così grave, conferma padre Alumuku, che “per la prima volta si possono vedere campi per sfollati ad Abuja e appena fuori”. Non ha atteso l’aggravarsi dell’emergenza, però, la mobilitazione collettiva: già due mesi fa un enorme evento organizzato dal governo aveva riunito imprese nazionali, organizzazioni non governative e persino privati cittadini, permettendo di raccogliere oltre 60 miliardi di naira, cioè circa 270 milioni di euro da destinare all’assistenza. “La scorsa settimana dieci vescovi nigeriani, compreso il presidente della Conferenza episcopale, l’arcivescovo di Jos, monsignor Ignatius Kaigama, hanno incontrato il presidente della repubblica Goodluck Jonathan, per chiedere che gli aiuti siano distribuiti equamente tra le zone colpite, visto che non erano arrivati ai rifugiati negli stati di Borno e Adamawa”, spiega il portavoce. Tra gli sfollati, spiega inoltre il religioso, “non ci sono solo cristiani ma anche musulmani: un altro segno che Boko Haram non si cura della religione, ma semplicemente elimina chi non accetta il gruppo”. E proprio con i fedeli islamici, in particolare con i loro leader, bisogna dialogare per fare fronte comune contro l’emergenza, ritiene il sacerdote. La Chiesa cattolica, ribadisce “ha legami molto stretti con i capi ufficiali della comunità musulmana”, ma esiste anche – al di fuori di essa – chi mette in dubbio l’opportunità di questo rapporto. È a queste persone che padre Alumuku si rivolge in conclusione, ricordando che “senza dialogo non può esserci pace”.