“Anche se il presente non è dei più rosei, il futuro è senz’altro rosa”. Così Paolo Branca, professore di Islamistica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, commenta l’aumento del tasso d’iscrizione delle donne nelle università dei Paesi arabi come riportato dal “The global gender gap report – Index 2014”. L’indagine annuale sulla disparità di genere nel mondo, condotto dal Wef (World economic forum), la Fondazione con sede a Ginevra nata nel 1971 per iniziativa dell’economista Schwab, ha rivelato, rispetto a cinque anni fa, un aumento della presenza femminile nelle università dell’Algeria, Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Iran, Qatar, Tunisia. In Algeria, ad esempio, nel 2009 il 28% delle ragazze (sul totale della popolazione) si era iscritta all’università, mentre nel 2014 il tasso è salito al 38%. Ancora più evidenti sono i dati dell’Arabia Saudita e dell’Iran: nel regno saudita nel 2009 soltanto il 35% delle ragazze frequentava regolarmente l’università, nel 2014 invece lo stesso tasso ha superato il 50%; nella repubblica iraniana invece il tasso è salito dal 34% al 55%. La tendenza è pressoché confermata anche negli altri Paesi. Non solo. Saadia Zahidi, senior director del Wef e una delle autrici del Report 2014, recentemente sul Financial Times ha dichiarato che “Gli ultimi dieci anni hanno determinato un cambiamento esponenziale e che oggi sono quasi 40 milioni in più le donne musulmane che lavorano”. Questo cambiamento si nota, ad esempio, in Iran dove il tasso di disoccupazione femminile è sceso dal 20% del 2009 al 17% del 2014. In Arabia Saudita, invece, il 15% delle donne detiene un conto corrente in banca e alcune di loro nel 2013 sono state assunte come cassiere e commesse.
Formazione e cultura. “Oggi le donne musulmane non si considerano più solo madri o casalinghe, ma anche professioniste. Fanno sentire la loro voce e si ribellano ai matrimoni combinati”, afferma Paolo Branca. “È vero – prosegue – che le donne studiano di più, ma ci vorranno delle generazioni perché questa rivoluzione, che è silenziosa, graduale e comunque in corso, cambi la loro reputazione”. Si tratta, dunque, di un progressivo passo verso una parità di genere. “Solitamente le ragazze arabe scelgono facoltà a carattere tecnico-scientifico e non umanistico. Coloro che hanno più ambizioni di lavorare fanno queste tipo di scelte”. “Questa preferenza – precisa – non è secondaria ai fini dell’indagine perché solo gli uomini hanno maggiori possibilità di accesso alle facoltà di tipo umanistico. Non a caso i maggiori esponenti del fondamentalismo islamico sono o ingegneri o medici. La cultura umanistica è per tradizione apertura verso le diverse interpretazioni ma nei Paesi arabi permane uno schema ideologico e non storico, che pone dei limiti alle donne nell’acquisire una formazione del genere”. Se da un lato la tendenza verso facoltà a carattere tecnico-scientifico attesta l’ambizione della donna musulmana di trovare lavoro e ritagliarsi sempre più maggiore autonomia, dall’altro però prova che è ancora forte l’influenza maschile: “Nulla di strano – continua Branca – se la donna possiede un conto corrente. Nel contratto di matrimonio ha diritto a un’autonomia economica. Si tratta di un’assicurazione che la stessa legge islamica prevede. È chiaro che poi, alla pari dell’uomo, contribuisce alle necessità della famiglia. Tuttavia, qualunque sia il lavoro della donna, questo implica un rapporto con il pubblico che altrimenti il fondamentalismo islamico vorrebbe portare in auge. C’è comunque una cultura predominante che preferisce per la donna un ruolo più riservato e tradizionale”.
Khadijia, la prima sposa del profeta Maometto. Nonostante questo contrapporsi tra correnti tradizionaliste e impulso femminile, la “Womenomics” – neologismo coniato da The Economist per indicare oggi il lavoro delle donne quale motore di sviluppo mondiale – sta cominciando a trasformare anche il mondo musulmano. Del resto, la prima convertita all’Islam fu una donna d’affari, benestante e istruita: Khadijia, la prima sposa del profeta Maometto.