Di Giovanna Pasqualin Traversa
Costruire ponti attraverso il dialogo tra religioni e culture è forse più semplice quando il dialogo affonda i suoi pilastri nella vita reale, quotidiana. Quando poi tocca una sofferenza che scarnifica, come quella dei malati terminali e delle loro famiglie, ad essere in gioco non è una visione religiosa piuttosto che un’altra, ma lo sguardo sulla persona, sull’umano, che è poi lo sguardo della fede. Ed è stato questo sguardo il “fil rouge” dell’incontro “Interreligious dialogue on the end of life”, tenutosi ieri al Policlinico Gemelli di Roma per iniziativa del Centro di ateneo per la vita e della Società italiana di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva (Siaarti). Un’opportunità di ascolto e riflessione nella prospettiva culturale e di pensiero delle grandi religioni monoteiste sul fine vita, tema delicatissimo al centro di infuocati dibattiti politici e mediatici. Relatori cristiani, ebrei e musulmani, tutti concordi sulla necessità di trovare una mediazione tra tutela della vita e diritto di ogni persona a non essere sottoposta ad accanimento terapeutico. A richiamare il ruolo di primaria importanza delle religioni, e di “un dialogo e un confronto tra le diverse fedi”, chiamate “a fornire criteri e paradigmi per riconoscere e tutelare la dignità e l’inviolabilità della vita umana”, è in apertura dei lavori monsignor Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell‘Università cattolica, che sottolinea come su questi terreni di comune interesse si possa trovare “quella convergenza che a volte risulta più difficile sul piano strettamente religioso”. Del resto, nel suo recente viaggio in Turchia, Papa Francesco ha ricordato che “il comune riconoscimento della sacralità della persona umana sostiene la comune compassione, la solidarietà e l’aiuto fattivo nei confronti dei più sofferenti”.
Sacralizzare la vita. L‘Islam non ammette l‘eutanasia “perché la vita ha un valore incondizionato. Nel caso di pazienti in terapia intensiva, la sharia, integrata da principi morali-religiosi ai quali si aggiungono i principi di autonomia del paziente, consente la sospensione dei trattamenti solo per evitare l‘accanimento terapeutico e quando il medico è certo che la morte sarà inevitabile”, precisa Fekri Abroug, medico dell‘Università di Monastir (Tunisia). Per Yahya Pallavicini, vicepresidente della Coreis (Comunità religiosa islamica italiana) occorre “sacralizzare la vita e umanizzare la morte”. “Nel diritto islamico – spiega – non sono tollerabili né l’omicidio né il suicidio. È Dio a dare sia la vita sia la morte, nessuna delle due può essere considerata un male”. E proprio nell’orizzonte del dialogo, Pallavicini rilancia la sua proposta all’allora ministro della Salute Balduzzi di istituire una commissione interdisciplinare con professionisti della salute e referenti religiosi, “perché attraverso il confronto tra competenze diverse si può trovare una soluzione metodologica alle sfide pratiche del fine vita”.
Chiarire i termini. “Definire la linea sottile che separa l‘accanimento dall‘omissione terapeutica”, è l’invito diRiccardo Di Segni, radiologo e rabbino capo di Roma. “Siamo tutti d‘accordo – dice – sul rifiuto dell‘eutanasia e dell‘accelerazione della morte di un paziente, così come sul rifiuto dell‘accanimento terapeutico”, ma manca “una convergenza su questioni ‘secondarie‘, che poi secondarie non sono affatto” come quella dell‘idratazione e dell‘alimentazione. Sulla stessa linea il rabbino Avraham Steinberg, dello Shaare Zedek Medical Center of Jerusalem: “Proporzionalità e non proporzionalità sono parole rassicuranti ma vaghe; dobbiamo chiarire di più i termini per dare senso al dibattito”. “Come medici – ha scandito – dobbiamo essere molto più umili quando decidiamo per gli altri”.
Qualità della cura. La qualità della cura è legata anche alla possibilità che i pazienti abbiano accanto i propri cari. Per questo Alberto Giannini (Ospedale maggiore Policlinico di Milano) sostiene la necessità di un “duplice percorso culturale”: l’inserimento delle cure di fine vita nel percorso formativo delle scuole di specialità e l’apertura dei reparti di terapia intensiva ai familiari “la cui presenza è oggi non più di due ore al giorno in caso di adulti e cinque per i bambini”. Per Andrea Vicini, gesuita del Boston College School of Theology, “la tecnologia medica deve concentrarsi sul Magnetic Resonancce Imagining” per avere il massimo delle informazioni sullo stato vegetativo, sul livello di coscienza del paziente e sulle sue possibilità di recupero”, questioni su cui “sappiamo ancora molto poco”. Nella diversità delle religioni, “i principi fondanti condivisibili sono comuni”, fa notare a conclusione dell’incontroMassimo Antonelli, direttore del Centro di ateneo per la vita e della Siaarti, secondo il quale “si deve lavorare insieme per poter avere un atteggiamento, un comportamento che sia uniforme anche su ‘casi specifici’ che travalichino le differenze regionali”.