Gerusalemme e Istanbul, tappe di un pellegrinaggio ecumenico di Papa Francesco e del Patriarca Bartolomeo. L’immagine di Papa Francesco che china il capo di fronte al Patriarca Bartolomeo chiedendo la benedizione ha fatto il giro del mondo e ha dato un messaggio di umiltà, di fraternità e di intima adesione all’impulso dell’amore fraterno suggerito dallo Spirito.
A 50 anni dal decreto conciliare sull’ecumenismo (“Unitatis redintegratio”) e della Costituzione dogmatica sulla Chiesa (“Lumen gentium”) non ci si è mai fermati nel cammino di riavvicinamento delle Chiese e nel tentativo di cambiamento del clima dei rapporti tra cristiani, divenuti sempre più amichevoli, rispettosi e dialoganti. Si potrebbe dire: che cosa si doveva fare di più? Chi avrebbe dovuto fare qualche passo in più verso la convergenza delle posizioni teologiche e verso la revisione e la riforma della prassi pastorale delle diverse Chiese? Si deve confessare che non è passata in tutte l’idea che ci si deve confrontare con la Parola di Dio, con le tradizioni delle singole comunità ecclesiali che si sono venute formando lungo i secoli e che stanno ancora sorgendo.
Chi ha fatto qualcosa di più e si è spinto oltre i limiti dell’“ecclesiasticamente corretto” sono i due fratelli, Andrea e Pietro, rappresentati dal Patriarca di Costantinopoli e dal Vescovo di Roma. Si erano già ritrovati per la prima volta nelle persone di Atenagora e Paolo VI (1964) e poi nei loro rispettivi successori al Fanar e al Colle Vaticano. Nello scorcio di quest’anno dall’incontro di Gerusalemme a quello recente in Turchia, si sono ripetuti gesti carichi di significato. Ortodossi bizantini e cattolici romani, dal momento iniziale del cammino ecumenico, reso possibile dalla cancellazione delle vicendevoli scomuniche, pur con momenti di freno, di sospensione del dialogo, hanno proseguito il cammino ecumenico affermando i motivi della loro fraternità.
L’unità non è stata ricercata tanto come convergenza nell’interpretazione di versetti biblici o in formule teologiche, ma – ed è questa l’attuale novità – si è imposta alla coscienza credente dalla luce accecante della tomba vuota custodita nella Basilica del Santo Sepolcro dove si sono ritrovati insieme a prendere la spinta per il comune cammino. Francesco ha detto: “Non lasciamoci rubare il fondamento della nostra speranza, che è proprio questo: Christòs anesti! Non priviamo il mondo del lieto annuncio della Risurrezione! E non siamo sordi al potente appello all’unità che risuona proprio da questo luogo, nelle parole di Colui che, da Risorto, chiama tutti noi ‘i miei fratelli’” (cfr Mt 28,10; Gv 20,17; Dichiarazione comune sottoscritta a Gerusalemme dal Papa e dal Patriarca). Non solo l’ecumenismo, ma ogni azione pastorale e missionaria delle Chiese, ha un senso e acquista un primato gerarchico dalla fede nella risurrezione che rende superflua e vana ogni resistenza alla comune testimonianza: “Noi siamo uomini e donne di Risurrezione e non di morte”… Dobbiamo “rivedere tutto alla luce del mattino di Pasqua”…
L’altro punto di accelerazione verso la piena comunione, eccedente rispetto a linguaggi cauti e persino reticenti e le rigidità di tanti “addetti ai lavori”, presenti nelle varie Chiese, è la riproposizione convinta e fedele di portare a termine il comune lavoro finora svolto. Nella Dichiarazione sottoscritta a Istanbul si afferma: “Il nostro ricordo degli Apostoli rafforza in noi il desiderio di continuare a camminare insieme al fine di superare, con amore e fiducia, gli ostacoli che ci dividono… Vogliamo riaffermare insieme le nostre comuni intenzioni e preoccupazioni… Esprimiamo la nostra sincera e ferma intenzione, in obbedienza alla volontà di nostro Signore Gesù Cristo, di intensificare i nostri sforzi per la promozione della piena unità tra tutti i cristiani e soprattutto tra cattolici e ortodossi” (Istanbul, 30 novembre 2014). Questa Dichiarazione acquista chiarezza e credibilità dalle parole di Francesco pronunciate nella chiesa patriarcale di S. Giorgio, a conclusione della visita, quando ha invitato cattolici e ortodossi a “mettere da parte le esitazioni ereditate dal passato”. E ha voluto precisare che “il ristabilimento della piena comunione tra cattolici e ortodossi non significa né sottomissione l’uno dell’altro, né assorbimento, ma piuttosto accoglienza di tutti i doni che Dio ha dato a ciascuno per manifestare al mondo intero il grande mistero della salvezza”. Aggiungendo: “Voglio assicurare a ciascuno di voi che, per giungere alla meta sospirata della piena unità, la Chiesa cattolica non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune”. Facendo riferimento al primo millennio in cui le due Chiese, nonostante molteplici difficoltà, sono rimaste indivise, per la Chiesa cattolica ciò che unicamente conta è il conseguimento della comunione piena nel banchetto eucaristico e nell’amore fraterno: “L’unica cosa che la Chiesa cattolica desidera e che io ricerco come Vescovo di Roma, la Chiesa che presiede nella carità, è la comunione con le Chiese ortodosse”. In attesa, dobbiamo “prepararci a ricevere questo dono della comunione eucaristica, secondo l’insegnamento di sant’Ireneo di Lione, attraverso la professione dell’unica fede, la preghiera costante, la conversione interiore, il rinnovamento di vita e il dialogo fraterno” (Adversus haereses, IV,18,5. PG 7, 1028).
Parole nel solco della tradizione, nuove per la spinta e il coraggio, dette con l’enfasi di gesti eclatanti e segnati con il sangue dei martiri, più volte evocato, che cancella ogni divisione e apre l’attuale tragico capitolo dell’“ecumenismo del sangue”. Chi porrà resistenze a questa sfida?