Era diventato un simbolo della tragedia innescata da Ebola, ora può tornare ad essere un segno di speranza. L’ospedale Saint Joseph di Monrovia, capitale della Liberia, riapre le porte: l’annuncio è stato dato dall’organizzazione statunitense Catholic Relief Services (parte della rete di Caritas Internationalis), che ha contribuito a far ripartire i servizi della struttura. Questa aveva dovuto chiudere il primo agosto scorso, dopo che la febbre emorragica aveva ucciso gran parte del personale che si occupava dei malati. Tra le vittime anche una suora dell’Immacolata Concezione, Chantal Pascaline, e tre missionari dei Fatebenefratelli: il sacerdote spagnolo Miguel Pajares e i frati George Combey e Patrick Nshamdze. Quest’ultimo era anche il direttore dell’ospedale.
Verso una stabilizzazione. Il sacrificio dei missionari era diventato per qualche tempo l’emblema di una situazione in cui organizzazioni non governative e realtà presenti sul territorio tentavano di far fronte all’emergenza mentre la comunità internazionale ‘ufficiale’ faticava a gestirla, nonostante i continui appelli. La notizia delle morti e della chiusura del Saint Joseph era però arrivata nel momento in cui il panico per l’epidemia, in Liberia, sembrava aver raggiunto un picco: quindici giorni dopo la folla prese d’assalto un centro di salute provocando la fuga dei malati che vi erano ricoverati. La negazione dell’emergenza – evidente nello slogan dei manifestanti – “Ebola non esiste” era il segno più evidente di una situazione sempre più fuori controllo a livello interno. Oggi invece la riapertura dell’ospedale cattolico di Monrovia corrisponde a un momento in cui i segnali provenienti dal campo sono misti: difficoltà e speranze si sovrappongono, mentre la lotta al virus entra in una nuova fase. Questo è vero innanzitutto a livello internazionale: ormai i casi di contagio registrati sono oltre 17.100, di cui 6.070 mortali. La malattia resta concentrata, però, nei tre Paesi in cui si è manifestata per prima: Guinea Conakry, Sierra Leone e – appunto – Liberia. Senegal (con un solo caso, terminato peraltro con la guarigione del paziente) e Nigeria (20 casi di cui 8 mortali) sono già stati dichiarati liberi da Ebola, mentre il Mali (8 episodi di contagio di cui 6 mortali) è riuscito a limitare l’estensione del focolaio. Pochissimi, infine, i casi di contagio fuori dall’Africa, 1 in Spagna e 4 negli Stati Uniti: uno solo di questi pazienti, ricoverato proprio negli Usa, è morto.
Liberia, ancora sfide. A livello locale, la stessa tendenza sembra evidenziarsi in Liberia: “Nelle aree urbane – testimonia da Monrovia Peter Schleicher, coordinatore delle operazioni della Federazione internazionale della Croce Rossa nel Paese – il numero di casi sospetti si è in buona misura stabilizzato e la maggior parte di questi risulta alla fine negativo ai test”. In generale, prosegue l’operatore umanitario “il numero di nuovi casi è calato ma ce ne sono ancora, le strutture di cura hanno posti vuoti, ma nelle aree rurali più isolate si verificano ancora contagi”. Insomma, prosegue, “non si può dire che l’emergenza sia finita; anche se i nuovi casi calano, c’è il rischio di un’altra fiammata, di un nuovo aumento: in Guinea è già successo tre volte e non possiamo sapere se lo stesso capiterà qui”. Schleicher, però, sottolinea anche gli innegabili progressi nella risposta sanitaria che, nota, “è entrata nella seconda fase: ora sono disponibili posti nelle strutture di cura e il trasporto dei cadaveri può essere gestito in maniera rapida”, requisito essenziale per impedire nuovi contagi. Questo, prosegue il responsabile della Croce Rossa è essenziale per evitare la propagazione del virus e per permettere di concentrarsi sulle regioni più remote dove spesso “è una sola persona, di ritorno da un funerale in un’area vicina o in città a provocare il contagio”: anche in questo caso, dunque, è essenziale la prontezza della reazione. Schleicher non nasconde, però, le difficoltà che sono ancora presenti: nelle aree rurali dipendono ancora, come all’inizio, dalla negazione diffusa del problema. Un fenomeno che, spiega l’operatore umanitario, può essere contrastato efficacemente solo “raggiungendo i leader locali, compresi quelli religiosi”. In città, malgrado i progressi compiuti, è invece l’alta densità di popolazione a rappresentare ancora la sfida più grande: nel contribuire a vincerla, l’ospedale Saint Joseph finalmente riaperto può tornare a dare il suo contributo.
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