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A tu per tu con Alessandro Pertosa: eutéleia, decrescita felice e…

Di Stefania Santori

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Appuntamento letterario ieri sera all’Antico Caffè Soriano di San Benedetto del Tronto, per la presentazione del nuovo libro del Professor Pertosa, che abbiamo avuto piacere di incontrare.

Perché è importante leggere libri come quello di Alessandro Pertosa: cosa ha a cuore quando parla di eutéleia?
L’eutéleia è un termine greco che significa “frugalità”, “far bene nel limite, entro la misura”. Di contro a questa nostra Era Moderna caratterizzata dalla dismisura (il fare comunque che si oppone al fare bene), l’orizzonte dell’eutéleia da me presentato è popolato da concetti conviviali in cui le relazioni tra gli uomini sono orizzontali, non dispotiche, non di sottomissione. E’ un processo verso cui dovremmo cercare di orientare i nostri passi per salvaguardare l’umanità, permettendo il tramonto di questa ormai irriformabile economia tecnologico˗capitalista, che ha reso l’uomo inesorabilmente dominato, strumentalizzato e del tutto consumato. L’economia, diversamente da quanto si è portati a pensare, è l’ambito in cui da sempre si esercita il dominio dell’uomo sull’uomo. A partire da questa considerazione, mi sono convinto che per uscire dalla violenza economica sia necessario oltrepassare l’economia, ovvero farla morire definitivamente. Solo quando ciò sarà avvenuto, si creeranno appieno le condizioni per  l’emersione di qualcosa di nuovo che io chiamo eutéleia e che prefiguro in questo libro. Credo sia un’occasione di lettura per prendere consapevolezza di tutto questo.

Molto interessante la parte del testo dedicata alla Decrescita Felice, l’agire alternativo di concepire i rapporti umani secondo il suo punto di vista. Ma cosa si intende nello specifico?
Sgombriamo in primis ogni equivoco: decrescita non significa privazione, né è sinonimo di recessione o di povertà. Decrescita non è il termine opposto di crescita e non identifica un modello pronto per l’uso: è piuttosto una parola d’ordine che significa abbandonare radicalmente l’obiettivo della «crescita per la crescita». Con questo slogan, ci si riferisce a qualcosa di completamente nuovo, che porta ad un cambiamento radicale della situazione attuale ˗ in cui la felicità e il benessere delle persone vengono misurate con un indice puramente economico, il PIL che, in realtà, misura la ricchezza secondo un metro prettamente capitalistico ˗ dimenticando che il ben-essere di un popolo non coincide con il ben-avere. Tutto ciò, nella consapevolezza che la ricchezza che ci rende effettivamente sereni e felici è solo quella delle relazioni personali. La pienezza della nostra vita è data dalla quantità e dalla qualità dei rapporti che abbiamo con gli altri, dal tempo che trascorriamo con loro e dal modo in cui trascorriamo questo tempo insieme. Vivere poi questi rapporti (che incarnano davvero la nostra felicità!) in un ambiente che sia più genuino, più godibile, più a misura di persona, più lieto e sereno; in un contesto socio-economico dove si possa ri-pensare a forme di autoproduzione; dove il lavoro torni ad essere per vivere e non un «vivere per lavorare»; dove il mercato torni ad avere una sua funzione di riunione popolare e dove la preoccupazione economica tenda a scomparire, data una società conviviale e quasi in tutto autosufficiente. La Decrescita Felice propone, proprio per queste sue aspirazioni, la riduzione selettivamente del PIL ed opera attivamente in tal senso, vòlta ad ogni tentativo di eliminare ogni sorta di spreco e di superfluo.

Lei vede l’anarchia come unica modalità politica e culturale a sostegno di questo rapporto tra relazioni conviviali e il fine della felicità a cui deve tendere il percorso di vita di ogni uomo: c’è da recuperare fortemente questo connubio?
Noi siamo abituati a ragionare nei termini della scissione. Esisto io e poi esiste l’altro. L’altro è sempre un altro-da-me, un separato. Ecco, io propongo invece di pensare l’essere come una trama di relazioni, poiché io non sono scisso dal contesto che mi circonda, ma il risultato dello stesso.
I singoli individui, le singole cose sono modi di essere dello stesso essere. Cioè, l’essere è il medesimo, ma l’esistenza – il modo in cui si esiste – differisce per ognuno. Non si può essere felici da soli, non si può essere liberi da soli. L’individualismo borghese e liberal-capitalistico ci hanno fatto credere che ci si realizza se si sgomita per arrivare all’apice della scala sociale. Ma non è così: ci si salva dalla barbarie della violenza solo se si capisce che lo scopo ultimo della vita umana è la felicità! E si può essere felici solo se la razionalità che governa i nostri atti non è quella dell’homo homini lupus, non è quella della violenza e del dispotismo, bensì quella dell’an-archéin (il non principiare, non dominare, non governare, non sottomettere). Anarchico è quell’atteggiamento entro cui ogni singolo, con la responsabilità che gli compete, agevola e promuove spazi comunitari organizzati secondo dinamiche non˗di˗dominio, con l’obiettivo di abbattere steccati e diseguaglianze fra gli individui. Mi preme aggiungere, poi, che il modello che io presento lascia comunque tutti liberi di decidere come sia meglio e più opportuno agire, senza nessun’ulteriore riduzione in schemi già precostituiti. Per questo mi tengo bene alla larga dalle ideologie, ma corro verso l’utopia, concepita nel suo pieno senso autentico.

Come si concilia la sua teoria dell’eutéleia con la realtà sociale di questa Era Moderna? Sembra davvero essere utopica…
Assolutamente sì, ma proprio verso questa utopia (ovvero verso l’inizio di questo percorso che resta sempre al di là di ogni possibile realizzazione piena) dobbiamo sforzarci di camminare e dirigere i nostri sguardi! L’Occidente europeo deve capire che se non abbandona lo spazio economico, il destino sarà la notte, la morte annichilente. E noi oggi abbiamo delle responsabilità enormi nei confronti delle future generazioni. Perché non abbiamo ricevuto la terra dai nostri padri, ma la abbiamo in prestito dai nostri figli… perciò dobbiamo cercare di consegnarla a loro quantomeno nelle stesse condizioni in cui l’abbiamo ricevuta.

 

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