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Via dalle comunità a diciotto anni? Accompagniamoli

Di Francesco Rossi

Tutti i ragazzi hanno diritto di sentirsi “a casa”. Sia che vivano con la propria famiglia, sia che si trovino in affido presso comunità, case famiglia o altre famiglie. Non esistono, né devono esserci, “ragazzi di serie B”. Questa la filosofia dell’associazione Agevolando onlus (www.agevolando.org), nata nel 2010 grazie a persone che hanno sperimentato sulla propria pelle l’esperienza del passaggio alla maggiore età lontano dalla famiglia d’origine.

Il progetto “neomaggiorete”. Nel mondo dell’affido diventare maggiorenni rappresenta un punto di svolta spesso problematico. A 18 anni il percorso scolastico non è ancora terminato, né è pienamente maturata la capacità di prendere in mano la propria vita, eppure chi vive in comunità o in una casa famiglia deve lasciare il posto. Per far fronte a questa situazione Agevolando ha avviato il progetto “Neomaggiorete”, con lo scopo di “promuovere l’autonomia, il protagonismo, la partecipazione attiva” attraverso la realizzazione di guide cartacee, un sito web interattivo (www.sportellodelneomaggiorenne.it), sportelli informativi (a Rimini, Ravenna, Bologna e – prossimamente – Ferrara) e una rete (ora regionale, in seguito si auspica nazionale) di giovani care leavers in grado di prendersi carico dei neo-maggiorenni e accompagnarli nella conquista dell’età adulta. Apripista è stata l’Emilia Romagna, con 38 ragazzi e ragazze di età e nazionalità diverse che vivono nelle province di Parma, Modena, Ferrara, Ravenna, Rimini, Forlì-Cesena e Bologna. “Scopo ultimo e fondamentale – spiega il fondatore e presidente di Agevolando, Federico Zullo – è sensibilizzare verso un intervento preventivo per migliorare la qualità dei percorsi di tutela in situazioni eterofamiliari, soprattutto riguardo alle tematiche dell’uscita”.

“Da soli non possiamo farcela”. Coinvolti nel progetto, questi 38 giovani – anch’essi con storie di allontanamento dalla famiglia d’origine – hanno elaborato un decalogo di raccomandazioni destinate a educatori, comunità, operatori sociali, ma pure decisori politici e media, “per migliorare la qualità dei percorsi di cura e di transizione all’autonomia”. “A 18 anni è troppo presto per fare uscire un ragazzo dalla comunità, bisogna almeno aspettare che finisca la scuola e che abbia un lavoro, una stabilità. Per cercare casa e lavoro e per imparare a gestire correttamente il denaro, l’aiuto degli educatori è molto importante, da soli non possiamo farcela”. È una delle raccomandazioni prodotte, accompagnata dal suggerimento “che per un periodo gli educatori della comunità che già conoscono il ragazzo continuino a fare ‘tutoraggio’ sugli aspetti pratici, ma anche solo per consigli o quattro chiacchiere”. S’impara a pagare le bollette, gestire il denaro, convertire il permesso di soggiorno (per gli stranieri), ma è meglio se la prima volta non si è da soli. Preparare un ragazzo “all’uscita” significa anche “aiutarlo nell’inserimento lavorativo e sociale”, e per questo tra le raccomandazioni vi è “fare esperienza in azienda, in modo tale da poter uscire dopo i 18 anni con un’adeguata preparazione e con maggiore possibilità occupazionale”.

La vita in comunità. Diversi punti del decalogo affrontano gli anni in cui si vive “fuori famiglia”, in particolare dall’età dell’adolescenza in poi. “In comunità dovremmo sentirci a casa”, osservano i ragazzi. Un’indicazione che si traduce nella richiesta di educatori “appassionati”, capaci di ascoltare e di nutrire “un genuino interesse”, ma anche nella possibilità di “personalizzare” la propria stanza (“Non ci piacciono le pareti bianche, i mobili tutti uguali”; “anche poter portare i tuoi amici a cena o in casa ti fa sentire più a tuo agio”). Tra le richieste pure “maggiori autonomie” per “essere trattati allo stesso modo dei nostri coetanei”; sì alle regole “spiegando però il perché e facendoci riflettere sulle conseguenze delle nostre azioni”. Per gli stranieri, poi, l’appello – rivolto primariamente alle istituzioni – a “poter rinnovare il permesso di soggiorno fino al completamento del percorso scolastico o di tirocinio in atto al momento dell’uscita”. “Siamo venuti in Italia da minorenni, abbiamo studiato qui, vogliamo – sottolineano – che le nostre fatiche e quelle di chi ci ha aiutato vengano riconosciute”. Infine, un appello ai giornalisti: “Chiediamo di non giudicare né noi né le nostre famiglie, di raccontare con sensibilità le nostre storie, di non farci sentire emarginati, di non amplificare i nostri drammi”. Questi sono giovani “come tutti gli altri”, e non è giusto trattarli come se fossero “ragazzi di serie B”.

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