Ha combattuto la buona battaglia, Franco Bomprezzi, morto ieri a Milano. Un’esistenza spesa per raccontare la disabilità con gli occhi di chi l’ha vissuta fin da bambino, per quell’imperfezione genetica che gli aveva consegnato alla nascita ossa troppo fragili per sopportare il peso. Del corpo, s’intende, non della vita: di quella Franco è stato un narratore infaticabile e appassionato, portatore di speranza per ogni persona che incontrava sul cammino. Tifoso della sua Inter come ce ne sono pochi, e per questo avvezzo a rimboccarsi le maniche per cominciare daccapo ogni volta.
Da giornalista e scrittore ha accompagnato, negli anni, il dibattito pubblico sul tema della disabilità contribuendo a inaugurare una stagione nuova che, grazie all’intelligenza lucida che lo caratterizzava e all’attenzione costante all’uso del linguaggio, sta portando ora i primi frutti sperati. Ancora pochi si dirà, e questo è vero. Ma se in Italia si è iniziato a ragionare attorno all’idea che i diritti appartengono alle persone in quanto tali, non perché esse siano disabili o meno, lo si deve in larga misura al comunicatore formidabile che è stato Franco Bomprezzi. Il suo impegno, che prima di essere personale era civico e politico, lo ha portato a vivere una lunga martingala dei diritti. Una scommessa vinta, su questo non c’è dubbio.
“Liberi di volare” è il nome della stanza numero 15 del Centro clinico Nemo al Niguarda in cui si è spento. Non è un caso, come non lo è mai. Era entrato per degli accertamenti a seguito di un’embolia polmonare ma aveva capito, da subito, che la situazione non si sarebbe risolta come le altre volte. Eppure non ha smesso di crederci e di provarci, finché ha potuto. Si muore come si vive, “a muso duro”.
A chi resta spetta l’eredità di portare avanti il lavoro di Franco. Un impegno gravoso, che non si può tradire. Un passaggio di testimone.
0 commenti