Facile salire sul pulpito e predicare meglio del proprio parroco? Più di qualche fedele l’avrà pensato. Può darsi che il destro gli sia stato offerto dall’improvvisazione del sacerdote. Eppure un pastore d’anime sa che non può sbagliare una parola in determinate circostanze come un funerale, le prime comunioni, un matrimonio. I presenti non dimenticheranno facilmente.
Quel fedele potrebbe pure sentirsi incoraggiato nella sua critica da sant’Agostino che diceva: l’omelia deve “istruire, piacere, persuadere”. A consolazione questa volta dei sacerdoti si può però ricordare che spesso l’illustre filosofo, retore e padre della Chiesa, doveva ogni tanto mandare il suo diacono a svegliare i fedeli.
Messi da parte questi preliminari, tutto sommato simpatici, fedeli e sacerdoti, compresi anche i praticanti saltuari, va rimarcato che l’omelia è un atto liturgico. “Si raccomanda – scrive la Costituzione liturgica del Vaticano II al n° 52 – vivamente l’omelia, che è parte dell’azione liturgica. In essa nel corso dell’anno liturgico vengano presentati i misteri della fede e le norme della vita cristiana, attingendoli dal testo sacro”.
Per questa ragione la Chiesa, attraverso la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, ha deciso, su invito di Benedetto XVI e secondo un progetto già in corso da tempo, di emanare un Direttorio omiletico, per ora consegnato alle Conferenze episcopali, che in seguito diventerà pubblico.
Il documento si muove sostanzialmente su due versanti. Che cosa comunicare? Il primo versante attiene alla natura, al che cos’è dell’omelia, al contesto e funzione dell’omelia. Non meno importante è l’altro corno del problema. Come comunicare il messaggio? Come tessere insieme contenuti e modi, significati e “significanti”? Senza mai dimenticare che per il messaggio è fondamentale il modo, ossia il mezzo, per dirla con Marshall McLuhan.
“L’omelia sia che spieghi – scrive il messale romano nell’introduzione – la parola di Dio annunziata nella Sacra Scrittura o un altro testo liturgico, deve guidare la comunità dei fedeli a partecipare attivamente all’Eucaristia, perché esprimano nella vita ciò che hanno ricevuto mediante la fede. Con questa viva esposizione la proclamazione della Parola di Dio e le celebrazioni della Chiesa possono ottenere una maggiore efficacia a patto che l’omelia sia davvero frutto di meditazione, ben preparata, non troppo lunga né troppo breve, e che in essa ci si sappia rivolgere a tutti presenti, compresi i fanciulli e la gente semplice”.
Ora i contenuti vanno attinti dalla Scrittura, dalla liturgia stessa, dalla dottrina della Chiesa e dal magistero; vanno però inseriti nella cultura, nei problemi, nelle esigenze dell’assemblea liturgica. Mica è poco! È il contesto socioculturale.
Ma l’omelia come ogni comunicazione deve diventare “esistenza” comunicativa. Non può restare un blà blà! di chiacchiere inutili. È imparare per vivere, è immedesimarsi nella celebrazione per applicare a sé stessi e alla propria vita.
Il sacerdote deve dunque essere dotato sia di competenza sia di esistenza comunicativa. Che significa per l’omileta, per il presidente dell’assemblea liturgica? Certamente valgono le sue qualità per così dire di oratore. Contano la sua preparazione, la sua competenza. Queste, tuttavia, potrebbero pure essere brillanti ma a nulla varrebbero se non fosse considerato e sentito come un testimone di ciò che predica. Conta insomma la sua vita, quale messaggio subliminale: in soldoni conta l’esempio. Si ricordi il modo di esprimersi quasi impacciato di Madre Teresa di Calcutta ma sempre efficace.
Coniugare insieme tutto questo richiederebbe delle qualità sovrumane così da scoraggiare chiunque. Se (l’omileta) non sapesse di poter confidare nella forza che viene da Dio. Agostino di Ippona notava di sé stesso: “Anche a me il mio parlare non piace quasi mai. Vorrei solo esprimermi meglio”. Vale anche per ogni sacerdote.
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