Se una malattia incute timore, un catalogo di malattie atterrisce. La diagnosi di Francesco sulla sua Curia romana è implacabile e affonda nelle radici marce che pretendono di produrre frutti maturi e copiosi.
Consegnare ad un paziente un simile catalogo significa portarlo sull’orlo della depressione? Indubbiamente, se ci fosse solo il rilevamento, cioè l’ispezione, quasi un malsano girare il coltello nella piaga.
Il vescovo di Roma, però, è il pastore che vuole prendersi cura delle sue pecore, a costo della sua stessa vita.
L’impietoso elenco promana dal grande desiderio non solo della salute della sua Curia, e non sarebbe cosa da poco, ma dall’autentica passione per quella salvezza che dona il Vangelo.
Perciò il malato non è dichiarato incurabile, come oggi rischierebbe in un qualsiasi ospedale sentendosi dire che, avendo superato una certa età, non esistono cure accessibili, vale a dire che la società ha deciso che l’investimento non sarebbe redditizio. La conseguente condanna di abbandono sarebbe solo che ovvia.
Corre il pensiero alla disavventura di Teresa di Gesù, ancora giovane monaca e ammalata, finita nelle grinfie di una curandera che la condusse sull’orlo della tomba. Per la Curia romana (ma in fin dei conti per ciascuno di noi nella nostra microscopica curia domestica), Francesco non è un curandero e neppure un imbonitore che vende pozioni o filtri magici.
Tutto è molto più semplice e rettilineo, tuttavia richiede una coscienza aperta e plasmabile allo Spirito: “La Curia è chiamata a migliorarsi, a migliorarsi sempre e a crescere in comunione, santità e sapienza per realizzare pienamente la sua missione”.
Sono parole che ricorrono spesso e di cui si è smarrito (speriamo non perduto) il magnetismo: “Il rapporto vivo con Cristo”.
La malattia, ovvero le malattie, cominciano a proliferare e a insediarsi quando il “perché” della vita spesa al servizio di Cristo e della sua Chiesa non ha più mordente e si riferisce solo alla propria persona, al proprio guadagno immediato, sia esso declinato in termini di denaro (lo sterco del diavolo), sia in termini di carriera (gli arrampicatori sociali).
L’esame istologico, allora, urge e non potrà che portare il marcatore dello “spirito del maligno che divide”; la scelta sarà dura tra patologie del potere, malattie del “martanismo”, impietrimento e via via sciorinando. S’imbocca una strada senza uscita. Se scatta la consapevolezza, ci si apre al pentimento e al vivo rincrescimento per non aver mirato correttamente a costruire la propria missione.
Il guaio è che la malattia e tutte insieme le malattie sono contagiose, infettano perché pavimentano una strada comoda, vantaggiosa, di rinomanza sociale, di grande esibizione. L’infezione cresce e si sviluppa a dismisura, diventa incontrollabile e uccide.
L’antidoto è il Cibo quotidiano della comunione amorosa con Cristo, vivo nel Pane e nel Vino. Vivo nel suo dono all’umanità, tanto da rinchiudere l’Infinito nel finito, nel restringersi nel sacco della pelle umana.
Francesco spazza via le luminarie, le sdolcinature legate a un clima pseudo-natalizio e, con il suo coraggio, dona la grazia del Natale: riconoscere la venuta del Salvatore e lasciarsi invadere nella propria umanità, debole e fallace, dall’Umanità del Figlio Incarnato: “Tanto più siamo intimamente congiunti a Dio tanto più siamo uniti tra di noi”. Prova del nove che un Altro opera in noi “perché lo Spirito di Dio unisce”.
In un clima storico in cui la religione ha perso terreno e autorevolezza, a maggior ragione le persone consacrate a Dio e operanti per la Chiesa, devono far risplendere non le lucette luna-park su sfondi di finte montagne cartonate, ma la Luce del mistero di amore che spinge il Figlio a venire nella storia pur sapendo quali e quante malattie verranno attribuite al Suo messaggio di salvezza.
La sfida è enorme: Egli guarisce, Egli sana ma non senza di noi, non senza la nostra adesione totale e senza ritorni.
Solo allora avrà senso parlare e predicare la venuta del Salvatore, altrimenti ci sarà un falso in atto pubblico: 15 malattie da codice rosso.