Ai bordi della cronaca il racconto del tempo di Natale passa anche attraverso i fatti e i problemi che quotidianamente, tramite i media, entrano nelle case e nei pensieri. Le immagini e le parole trasmettono molto spesso anche in questi giorni messaggi di dolore, di sofferenza e di sconcerto.
E sono queste notizie laceranti che interrogano il Natale e lo pongono, a volte anche con estrema immediatezza, al centro del difficile dialogo tra la gioia e la sofferenza. La strage dei bimbi e dei ragazzi in Pakistan, la fine sconvolgente del piccolo Loris, della piccola Yara e di altri innocenti in Italia, i molti morti nel Mediterraneo, le vittime di persecuzioni in Africa, sono solo alcuni esempi che richiamano la fatica e ancor più il significato grande di un dialogo interiore tra la gioia e la sofferenza davanti alla grotta di Betlemme.
Perché tanto dolore nel mondo? Quasi improvvisamente viene alla mente la citazione del Vangelo di Giovanni che padre Massimiliano Kolbe balbettava davanti alle cataste di corpi devastati nei campi di concentramento nazisti: “Et verbum caro factum est…”. Padre Massimiliano, morto nel bunker della fame al posto di un padre di famiglia che volle salvare, vedeva nell’annientamento di milioni di persone la presenza, per i più impensata e impensabile, del figlio di Dio fatto uomo. Un “vedere altro” che si ripeteva anche nelle brutali carceri staliniste nell’Est europeo.
Dalla grotta di Betlemme a una scuola pakistana, a un fosso sperduto tra i campi italiani, a un mare europeo disseminato di morti, a villaggi africani sconvolti dal massacro.
Dio, era ed è tra quei poveri corpi straziati. La culla rimandava allora e rimanda oggi alla croce.
Ma non è troppo richiamare tutto questo proprio nel tempo della gioia, nel tempo della serenità, nel tempo dei sorrisi e degli auguri?
Perché mai accennare al dolore, alla sofferenza e alla morte nel giorno della nascita di Colui che ha cambiato direzione alla storia, di Colui che è venuto per mutare il pianto in sorriso?
Non certo per spegnere le luci, i canti, lo scambio dei doni, e l’atmosfera di raccoglimento e di serenità.
Ai bordi della cronaca, rileggendo fatti e problemi, ci si accorge però che la festa è tanto più vera quanto più i pensieri entrano nel terreno dell’umano e traggono nell’incontro con la sofferenza i motivi per dare senso pieno alla gioia.
Non è un percorso facile. È un percorso umile che porta alla soglia del mistero in punta di piedi e con il fiato sospeso. Come è accaduto ai pastori e come accade soprattutto ai bambini quando si accostano al presepio.
“Et Verbum caro factum est…” diventa la chiave per aprire la porta del cuore e della mente, perché la capanna di Betlemme non ha porte, e trovarsi faccia a faccia con il mistero diventato Volto.
Come era accaduto a padre Kolbe e ad altri che, come lui, sono stati e sono improvvisamente risucchiati dal vortice del male, della violenza, dell’umiliazione. Nel buio più profondo, nella disperazione più lacerante la luce del Natale illumina poco a poco la vita e nella sua umiltà non ha bisogno di polemizzare con gli effetti speciali delle luci artificiali perché sa che in ogni uomo ci sono il desiderio e la ricerca di un chiarore che, come quello dell’alba, cresca con il passare del tempo. È questa stessa luce che davanti a una grotta nascosta alla periferia di una grande città riaccende nel credente e nel non credente il dialogo tra il Nulla e l’Infinito.