Rischi estremi. L’Africa, in effetti, è stata definita “l’area più vulnerabile del mondo agli effetti del cambiamento climatico”, in un recente studio della Banca africana di sviluppo (Afdb): nel documento si nota – tra l’altro – che gli “effetti negativi” di questo cambiamento “stanno già riducendo il prodotto interno lordo africano dell’1,4%”, un costo che salirà al 3% nei prossimi 15 anni. Il continente si trova dunque ad un bivio paradossale: puntare esclusivamente sulla crescita e lo sviluppo – allentando ad esempio le severe regole sull’emissione di gas serra nell’atmosfera – potrebbe rivelarsi, nel lungo periodo, dannoso. Ma non farlo, sostengono da tempo molti Paesi dall’economia emergente, significherebbe non disporre delle risorse necessarie a combattere la povertà e i disagi sociali che colpiscono ancora larga parte della popolazione. La questione, però, non può essere ridotta al solo piano economico: l’elenco dei ‘mali ambientali’ dell’Africa stilato nel 2012 dalla conferenza ministeriale africana per l’Ambiente (Amecen) è impietoso. L’inquinamento dell’aria – causato dall’uso di combustibili inadeguati – provoca 40mila morti l’anno nel continente e in alcune zone la qualità dell’aria è dalle 10 alle 30 volte peggiore dei limiti raccomandati dall’Organizzazione mondiale della sanità. Il cattivo trattamento delle acque e la contaminazione chimica che deriva – ad esempio – dallo sfruttamento minerario e dall’uso di fertilizzanti agricoli, invece, fanno sì che la percentuale di africani che soffriranno per la scarsità di risorse idriche passerà dal 47% del 2000 a un probabile 60% nel 2025. Da tenere in considerazione è anche l’impatto della deforestazione in Paesi come Somalia, Mozambico, Madagascar e Guinea Bissau.
L’impegno delle Chiese. Di fronte a questo quadro preoccupante, le Chiese del continente, già prima dell’incontro di Lima, non si sono limitate a lanciare allarmi. L’impegno sulle tematiche ambientali è stato portato avanti da diverse realtà ecclesiali: tra queste, l’Università cattolica dell’Africa orientale, dove per iniziativa della conferenza episcopale regionale (Amecea) è nato un Centro per l’etica e la giustizia sociale (Csje), che si propone tra l’altro di incoraggiare la conoscenza di quella che viene definita “eco-teologia” e di delineare piani pastorali per “coinvolgere la comunità cristiana nella promozione dell’ambiente e dell’integrità della creazione”. L’esperienza non è isolata: a livello continentale, una preoccupazione simile è quella della Rete dei giovani cattolici per la sostenibilità ambientale in Africa (Cynesa). Richiamandosi tra l’altro al dettato del Concilio Vaticano II ed all’esortazione del 2010 di Benedetto XVI per cui “coltivare la pace” è anche “proteggere la creazione”, gli aderenti a questo network portano avanti programmi educativi sul tema ma anche azioni concrete a livello locale. Con queste rispondono a quella che considerano “la doppia sfida del degrado ambientale e del cambiamento climatico, prestando attenzione ai più vulnerabili”. Questi sono, innanzitutto, donne e minori, come nota la stessa Banca africana di sviluppo, ma anche tutti coloro che sono spinti ai margini da “un ordinamento finanziario ed economico basato sul primato di mercato e profitto, che non è riuscito a mettere l’essere umano e il bene comune al centro”. Sono, queste ultime, ancora parole del documento presentato a Lima dai nove vescovi, e proprio il sudafricano mons. Sipuka, durante il dibattito, si è incaricato di rafforzarle. “I poveri inquinano perché vivono in situazioni soffocanti – ha spiegato – e sovrautilizzano le risorse perché hanno bisogno di sopravvivere: non si può affrontare il cambiamento climatico senza occuparsi della povertà”.