Sfiora le 500mila presenze la Messa per la Canonizzazione del beato Giuseppe Vaz celebrata dal Papa stamane (ora locale), nel Parco urbano Galle Face Green di Colombo. Il medesimo luogo, cioè, diviso tra terra e mare dove proprio vent’anni fa, il 21 gennaio 1995, Giovanni Paolo II proclamò Beato il missionario oratoriano, che, nato in India da famiglia portoghese, approdò nello Sri Lanka per sostenere la fragile comunità cattolica durante la persecuzione dei calvinisti olandesi.
Tutto il paese si è mosso per celebrare insieme al Successore di Pietro il primo Santo del Paese, in una maestosa cerimonia che Bergoglio stesso, nel suo discorso di ieri in aeroporto, aveva definito il “punto centrale” oltre che la ragione principale della sua visita nello Sri Lanka.
Sotto un sole cocente i fedeli presenti sono infatti una folla oceanica, che Bergoglio fende con il suo giro sulla papamobile scoperta. In processione con i vescovi e i sacerdoti srilankesi, raggiunge poi l’enorme palco, dove troneggia una statua lignea che ritrae il Santo e da dove si diffonde in tutto il parco il suono di canti e melodie tradizionali.
Al suo arrivo, il sindaco di Colombo offre al Papa le chiavi della città; lui, dopo il rito di canonizzazione e il lungo applauso gioioso della folla, si sofferma a riflettere, nella sua omelia tutta in inglese, sulla figura di questo piccolo grande missionario che rappresenta oggi “un segno eloquente della bontà e dell’amore di Dio per il popolo dello Sri Lanka”.
Al di là di ogni sentimento ‘patriottico’, la popolazione del Ceylon può infatti ben vantarsi di quest’uomo che “ispirato da zelo missionario e da un grande amore” arrivò dalla natìa Goa “per rispondere al comando del Signore di fare discepoli tutti i popoli”.
“Con le sue parole, ma soprattutto con l’esempio della sua vita”, Vaz “ha condotto il popolo di questo Paese alla fede”, sottolinea il Santo Padre. In Lui, prosegue, “vediamo anche uno stimolo a perseverare nella via del Vangelo, a crescere noi stessi in santità, e a testimoniare il messaggio evangelico di riconciliazione al quale egli ha dedicato la sua vita”.
Tutto questo, san Giuseppe lo fece in un momento estremamente delicato per lo Sri Lanka, caratterizzato da rapide e profonde trasformazioni e da durissime persecuzioni nei confronti dei cattolici, una minoranza spesso divisa al suo interno. Nonostante ciò, padre Vaz “fu in grado di diventare per tutta la popolazione un’icona vivente dell’amore misericordioso e riconciliante di Dio”. E per amore a Cristo sfidò ogni ostacolo, arrivando pure a vestirsi come un mendicante e adempiere ai suoi doveri sacerdotali incontrando in segreto i fedeli di notte.
“I suoi sforzi hanno dato forza spirituale e morale alla popolazione cattolica assediata”, afferma Francesco, ricordando in particolare il forte desiderio del missionario di servire malati e sofferenti. Il suo ministero con gli infermi, specie durante un’epidemia di vaiolo a Kandy, fu così apprezzato dal re che gli fu concessa maggiore libertà di esercizio e di raggiungere altre zone dell’isola. Morì infatti consumato nel lavoro missionario a soli 59 anni, già venerato per la sua santità.
Una santità il cui eco arriva fino ai giorni nostri, dove padre Giuseppe – evidenzia il Papa – rappresenta “un esempio e un maestro per molte ragioni”. Tre in particolare ne focalizza Bergoglio.
Innanzitutto, egli “fu un sacerdote esemplare”: tutti i religiosi e le religiose sono chiamati quindi “a guardare a san Giuseppe come a una guida sicura”. Perché lui – afferma – “ci insegna ad uscire verso le periferie” e è anche esempio “di paziente sofferenza per la causa del Vangelo, di obbedienza ai superiori, di amorevole cura per la Chiesa di Dio”.
Giuseppe Vaz dimostra poi “l’importanza di superare le divisioni religiose nel servizio della pace” e di aprirsi all’amore per i bisognosi “chiunque e dovunque essi fossero”. Una testimonianza che ispira la Chiesa in Sri Lanka, la quale, senza alcuna “distinzione di razza, credo, appartenenza tribale, condizione sociale o religione”, serve “generosamente” tutti i membri della società attraverso scuole, ospedali, cliniche e altre opere di carità.
La Chiesa “non chiede altro che la libertà di portare avanti la sua missione”, sottolinea il Papa, lanciando un appello ad una piena libertà religiosa che “è un diritto umano fondamentale”: “Ogni individuo dev’essere libero, da solo o associato ad altri, di cercare la verità, di esprimere apertamente le sue convinzioni religiose, libero da intimidazioni e da costrizioni esterne”.
Padre Vaz – aggiunge il Pontefice – “ci insegna che l’autentica adorazione di Dio porta non alla discriminazione, all’odio e alla violenza, ma al rispetto per la sacralità della vita, al rispetto per la dignità e la libertà degli altri e all’amorevole impegno per il benessere di tutti”.
L’oratoriano giunse infatti a Ceylon per soccorrere e sostenere la comunità cattolica, ma nella sua carità evangelica “arrivò a tutti”, perché “sapeva come offrire la verità e la bellezza del Vangelo in un contesto multi-religioso, con rispetto, dedizione, perseveranza e umiltà”.
E proprio questa – osserva il Papa – “è la strada anche per i seguaci di Gesù oggi”, chiamati “ad ‘uscire’ con lo stesso zelo, con lo stesso coraggio di san Giuseppe, ma anche con la sua sensibilità, con il suo rispetto per gli altri, con il suo desiderio di condividere con loro quella parola di grazia che ha il potere di edificarli”.
Tutti sono chiamati dunque ad essere “discepoli missionari”. Perché “questo – conclude Francesco – è quanto Cristo si aspetta da voi. Questo è quanto san Giuseppe vi insegna. Questo è quanto la Chiesa vi chiede”.
Al termine della Messa, il card. Ranjith, arcivescovo di Colombo, ha consegnato al Papa un assegno di 70mila dollari per le sue opere di carità. La somma è frutto della colletta dei fedeli.
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