Che fretta c’era, nel decidere tramite decreto legge che le dieci maggiori banche Popolari italiane dovranno cambiare – da qui a 18 mesi – la loro governance, lasciandosi alle spalle i principi cooperativi e adottando quelli capitalistici delle spa?
Nessuna: è una riforma di cui si discute da decenni, decisa in due ore. Nessuna fretta, o quasi. Perché, a ben vedere, l’obiettivo del governo Renzi non parrebbe quello di dare “una scossa al credito” (oddio: anche buttar giù tutto è dare una scossa), né quello di eliminare i “troppi banchieri”: queste banche non si trasformeranno in centrali ortofrutticole.
A ben vedere, c’era da risolvere – questa cosa sì con urgenza – la crisi di un paio di banche nemmeno Popolari, ma grosse. In particolare, una cara a chi governa: il Montepaschi (l’altra è la genovese Carige). Sono banche che avrebbero disperato bisogno di trovare nuovi partner per risollevarsi dalla profonda crisi finanziaria in cui versano. Attualmente in Italia, di partner disponibili non ce ne sono. Ma se le Popolari si trasformano in società per azioni, certi matrimoni diventerebbero molto meno complicati. In generale, tutto il settore creditizio sarebbe rivoluzionato, si assisterebbe a quella concentrazione bancaria che crea soggetti più grandi ma inevitabilmente più lontani dal territorio.
Peccato però che così si cancellino decenni di storia e soprattutto il futuro di queste dieci banche popolari. Perché il passaggio dal voto capitario (ogni socio un voto a prescindere dalla quantità di azioni possedute) a quello in cui i pacchetti azionari “pesano” eccome, fa di queste dieci banche le prede perfette per chi ha tanti denari da investire, e nessuna remora a farli fruttare il più velocemente possibile.
Stiamo parlando dei fondi d’investimento stranieri, delle “locuste” che arrivano, spolpano e se ne vanno. Di chi ha più interesse a creare smembramenti o fusioni – insomma operazioni finanziarie poco faticose e grandemente redditizie – più che fare il lavoro del banchiere e operare bene sul territorio. Insomma, così si rischia concretamente di consegnare dieci importanti banche (alcune ottime e solide) nelle mani della speculazione finanziaria. Infatti i titoli delle banche quotate sono immediatamente schizzati all’insù. Vale la pena sacrificarne dieci per salvarne un paio?
È vero: l’autonomia statutaria di cui godono le Popolari è stata a volte distorta. Ci sono casi di vertici inamovibili, di sindacati interni assai invadenti, di scarsa capacità d’azione (difficile mettere d’accordo migliaia di teste). E l’esigenza di cambiamento più volte invocata, è stata troppo spesso accolta all’italiana: tutti d’accordo, ma niente si muoveva, o con lentezza eccessiva.
Ma un bel disegno di legge che salvaguardasse le esigenze dell’economia italiana con i principi mutualistici di questi istituti e l’autonomia statutaria di cui ogni banca gode, con tempi ben definiti e con un percorso chiaro, sarebbe stata la vera soluzione. Così invece si sono corrette certe storture di quell’autonomia statutaria e di quell’originalità operativa, cancellandole interamente. Tutte spa, tutte uguali, tutte prone agli interessi degli azionisti di controllo, magari un fondo arabo o cinese distante migliaia di chilometri dalle esigenze dei territori che quelle Popolari hanno espresso.
Esageriamo? C’è una storia esemplare, quella di Padova. Ricca città grazie anche al buon lavoro di due banche popolari locali, la Banca Antoniana e la Popolare Veneta. Vent’anni fa la fusione in Antonveneta, una spa poi passata in varie mani fino a quelle del Montepaschi. Padova ora non ha alcuna banca, quelle che aveva sono finite (male) assai lontane.
L’aver “salvato” (espressione quanto mai rivelatrice) le piccole banche di credito cooperativo e le piccole Popolari, svela solo il vero intento del provvedimento governativo: terremotare le grandi Popolari. Se le cose finiranno così, Siena rischia di costare cara al sistema-Italia…
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