DIOCESI – Vi proponiamo il testo del secondo incontro organizzato dall’Ufficio Catechistico diocesano con Don Gian Luca Rosati tenutosi lunedì 19 gennaio.
Riascolta le parole di Don Vincenzo del primo incontro
Capitolo II – Annunciare il Vangelo di Gesù
- Il Vangelo (buona notizia) c’entra con la mia vita.
Abbiamo da poco celebrato la memoria di Sant’Antonio abate (17 gennaio). Vorrei partire proprio dalla storia di questo Santo per cominciare questa riflessione suAnnunciare il Vangelo di Gesù, secondo capitolo degli Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia. Sant’Atanasio nella sua Vita di Sant’Antonio, ci presenta un giovane che va interrogandosi «sulla ragione che aveva indotto gli apostoli a seguire il Salvatore, dopo aver abbandonato ogni cosa». Scrive S. Atanasio:
«Meditando su queste cose, entrò in chiesa, proprio mentre si leggeva il vangelo e sentì che il Signore aveva detto a quel ricco: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi e avrai un tesoro nei cieli” (Mt 19,21). Allora Antonio, come se il racconto della vita dei santi gli fosse stato presentato dalla Provvidenza e quelle parole fossero state lette proprio per lui, uscì subito dalla chiesa, diede in dono agli abitanti del paese le proprietà che aveva ereditato dalla sua famiglia – possedeva infatti trecento campi molto fertili e ameni…» (Vita di Sant’Antonio, Ufficio delle letture del 17 gennaio, memoria di Sant’Antonio abate).
Ho pensato di leggervi questo brano della vita di Antonio perché mi sembra che possa indicarci il punto di partenza: per evangelizzare, dobbiamo essere persone che si lasciano evangelizzare. Dobbiamo, come Antonio e tanti altri santi, aver trovato il tesoro, la perla preziosa e dobbiamo esserci decisi a vivere in funzione di quel tesoro che abbiamo trovato o ci è stato consegnato. Antonio intraprende un cammino radicale e pieno di pericoli e insidie; ma lo intraprende perché sperimenta continuamente che quella è la via della gioia, della perfezione – «Se vuoi essere perfetto,…».
L’annuncio è convincente se noi abbiamo sperimentato quello che annunciamo. Altrimenti balbettiamo qualcosa, cerchiamo di mostrarci sicuri, ma si vede subito che non ci anima una passione, si nota che il fuoco non ci arde dentro.
Un’immagine che vorrei presentarvi in questo contesto è quella degli occhiali da vista. Io li porto da tanti anni. Gli occhiali mi sono utili per vedere bene quello che mi circonda, per riconoscere le persone e vedere più lontano, oppure mi aiutano a mettere a fuoco le lettere di un giornale perché io possa leggere quello che c’è scritto,…
Gli occhiali, però, si sporcano e ogni tanto hanno bisogno di essere puliti…
Ora vi chiedo di fare un salto dagli occhiali alla Bibbia e precisamente al capitolo 24 del Vangelo di Luca, là dove si racconta dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35).
Avevano gli occhiali sporchi quel giorno, talmente sporchi da essere inutili. Me le immagino così le due lenti: una annerita dal dramma della Crocifissione («… i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso», v. 20), l’altra sporcata dalle attese deluse («Noi speravamo che…», v. 21).
Con due lenti simili non si vede niente, nemmeno quando tutto è illuminato da un bel sole, nemmeno quando intorno a noi avvengono veri e propri annunci della Sua Risurrezione («Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo», vv. 22-23)!
Abbiamo bisogno di qualcuno che pulisca costantemente i nostri occhiali, perché altrimenti rischiamo di non vedere il bello della vita, impediti non da una reale impossibilità esterna, ma dalla nostra mancanza di speranza, dalla nostra mancanza di fede.
Abbiamo bisogno che il Risorto ci affianchi e, spiegandoci le Scritture, ci aiuti a riconoscere la Sua Presenza in ogni momento e in ogni ambito della nostra esistenza.
Don Valentino Bulgarelli scrive:
«Che cosa abbiamo come Chiesa da dire, da consegnare, da offrire all’umano di oggi, perché la sua vita sia vera, bella e buona?
La Bibbia ci parla di un Dio che partecipa alla vita, illuminandola, trasformandola e orientandola in una direzione nuova, svelando le strutture di peccato che in essa si annidano.
Un Dio incarnato occupa necessariamente uno spazio e un tempo, crea legami tra gli uomini (comunità) e con il mondo (corpo, materia).
Un Dio incarnato lo si raggiunge necessariamente attraverso una comunità e un cammino che valorizza il corpo e la materialità. Un Dio disincarnato si raggiunge invece per un cammino individuale e di progressivo distacco dal corpo verso la sfera dello spirito.
In questo orizzonte muovono le parole di papa Francesco sul primo annuncio: “Sulla bocca del catechista torna sempre a risuonare il primo annuncio: Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti” (EG164).
Il Dio vivo al tuo fianco ogni giorno stimola il catechista ad adoperarsi non solo per percorsi formativi che abbiano, come obiettivo ultimo, l’esperienza – conoscenza della fede o del fatto cristiano – indubbiamente momenti importanti –, ma a proporre percorsi di crescita in umanità, che permettano di sperimentare la fede come risorsa di umanità».
Mi sembrano significative a questo proposito le parole di Matteo Truffelli, presidente dell’Azione Cattolica Italiana, che introducendo alla lettura di Incontriamo Gesù, scrive:
«Le parole di san Paolo ai cristiani di Tessalonica diventano anche per ciascuno di noi, per le nostre comunità parrocchiali, per le nostre associazioni un impegno da accogliere, scegliere e vivere: credere nella bellezza del dono della fede che opera e porta frutti copiosi nei nostri cuori, adoperarsi perché la carità sia lo stile delle nostre relazioni, annunciare la speranza nel Dio della vita e della gioia» (da Amare e far amare Gesù, approfondimento su Incontriamo Gesù. Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia).
- Testimoni del Risorto.
Che cos’è la sindone?
È un’impressione tanto forte di un’immagine su una tela da rendere quella tela un segno per chi si ferma a guardarla. L’impressione di quel corpo è talmente espressiva da diventare per noi credenti un racconto, una testimonianza di qualcosa di grande e non completamente spiegabile.
Chi sono i santi?
Sono uomini e donne come noi che hanno seguito il Signore fino a rendere visibili in loro la Sua presenza e il Suo amore nei gesti, nelle parole, nello stile, a volte anche nel corpo (stigmate). Essi sono diventati annuncio del Vangelo di Gesù: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,19-20).
Ho fatto riferimento a queste due immagini impressionanti perché mi sembra che sia utile tenerle sullo sfondo mentre continuiamo a riflettere sull’annuncio. Che cosa le caratterizza entrambe?
La memoria del Cristo Risorto!
Perché parlano?
Perché qualcuno ha scritto su di loro, ha impresso su di loro la Sua immagine.
Se penso all’evangelizzazione, penso alla Chiesa che siamo noi, una Chiesa di pietre vive che si lasciano modellare il cuore da Dio, ascoltando la Sua Parola, ricevendo i Sacramenti, collaborando alla Sua missione, esprimendo nell’amore al prossimo quell’amore senza misura che riceviamo da Dio. Evangelizziamo con la testimonianza della comunione e non soltanto con belle parole, con begli strumenti, con begli incontri,… Educhiamo prima di tutto con l’esempio e poi anche con le parole; siamo annunciatori di qualcosa che a nostra volta abbiamo incontrato, conosciuto, udito, toccato, amato! (cfr. Gv 1,1-4).
Sono da tenere sempre presenti le parole di San Paolo ai Corinzi.
Nella seconda lettera alla comunità di Corinto, egli scrive:
«La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani» (2Cor 3,2-3).
La comunità è dunque un contesto testimoniante e capace di trasmettere l’annuncio; la comunità è una vera e propria lettera di Cristo!
Al numero 34, il documento della CEI – Incontriamo Gesù – afferma:
«Se tutta la comunità cristiana deve essere impegnata nel primo annuncio – che si nutre di incontri, relazioni, dialogo ed empatia – è importante sottolineare la centralità dell’impegno dei laici, proprio per la loro specifica missione di rendere presente il Vangelo nei diversi ambienti della vita quotidiana. Con questa fiducia pensiamo a uomini e donne conquistati loro per primi dalla forza e dalla bellezza del Vangelo, per cui lo irradiano con la capacità di proporre, incoraggiare e stimolare l’interlocutore, affidandosi alla sua capacità di ragionare e di accogliere».
Occorre un atteggiamento di continuo ascolto del mondo che ci circonda. Senza volgerci nostalgicamente verso un passato che non tornerà e che rischia di farci perdere la giusta via (chi mette mano all’aratro e poi si volge indietro…), forti della fede che abbiamo ricevuto, siamo chiamati a renderla accessibile all’uomo contemporaneo, usando la nostra fantasia e i mezzi a nostra disposizione per invogliare l’uomo a mettersi in ricerca del tesoro che rende bella e gioiosa la vita!
Incontriamo Gesù perché Egli cammina sulle nostre strade e non tre metri sopra il cielo, con le cuffie alle orecchie e i paraocchi per non vedere ciò che c’è intorno,…
Il Gesù che ci consegna il Vangelo è un uomo in ascolto di tutti, anche di quelli che nessuno più ascolta. Quanta importanza diamo noi adulti alle parole dei bambini, ai loro racconti, ai loro sogni,…? I bambini non si sono ancora fatti un nome, una fama, una storia nota a tutti,… non sono personaggi famosi. Fermarsi a parlare con un personaggio importante è da tutti, rendere importante un bambino, fermandosi ad ascoltarlo è da cristiani, è da discepoli di Gesù!
Ci facciamo interpellare dalle situazioni che viviamo? Oppure andiamo avanti per schemi, strette di mano, pacche sulle spalle, parole e gesti scontati, sorrisi stampati, plastificati? Come se anche noi cristiani avessimo bisogno di pubblicità per vendereil nostro prodotto e non bastasse, invece, presentarci per come siamo, felici di essere cristiani!
Dice San Gregorio Nazianzeno raccontando la sua amicizia con San Basilio Magno:
«L’occupazione e la brama unica per ambedue era la virtù, e vivere tesi alle future speranze e comportarci come se fossimo esuli da questo mondo, prima ancora d’essere usciti dalla presente vita. Tale era il nostro sogno. Ecco perché indirizzavamo la nostra vita e la nostra condotta sulla via dei comandamenti divini e ci animavamo a vicenda all’amore della virtù. E non ci si addebiti a presunzione se dico che eravamo l’uno all’altro norma e regola per distinguere il bene dal male. E mentre altri ricevono i loro titoli dai genitori, o se li procurano essi stessi dalle attività e imprese della loro vita, per noi invece era grande realtà e grande onore essere e chiamarci cristiani» (Dai discorsi di San Gregorio Nazianzeno, vescovo – Ufficio delle letture del 2 gennaio, memoria dei Santi Basilio Magno e Gregorio Nazianzeno, vescovi e dottori della Chiesa).
Se ci lasciamo interpellare da ciò che ci circonda, dalla vita e dalle situazioni che ogni giorno affrontiamo, noi veniamo educati e con l’aiuto dello Spirito Santo cresciamo in sapienza, età e grazia. Il documento al n. 37 fa riferimento all’esperienza della paternità e della maternità:
«In tale esperienza accade una duplice nascita: quella di un figlio e quella di una donna e un uomo che dal figlio sono generati appunto come padri e madri. Nella nascita di una creatura, ne rinascono diversamente altre due». Vengono, inoltre, messi in risalto alcuni interrogativi che può suscitare in noi l’esperienza della paternità o della maternità: «Tutto questo diviene anche soglia possibile di fede, perché un bambino con la sua semplicità e il suo abbandono può far emergere interrogativi esistenziali assopiti; può risvegliare nell’adulto atteggiamenti dimenticati, quali la fiducia, il senso di figliolanza, la gratuità, la grazia; può far riscoprire la paternità di Dio e l’atteggiamento di essere figli che dipendono da Lui anche quando siamo nel pieno delle forze. Tale consapevolezza anima la speranza: essa suppone un futuro da attendere, da preparare, da desiderare. Per questo il riscoprirsi figli, nell’esperienza della genitorialità, mette allo scoperto l’autenticità della propria vita e la rinvia alle sue origini più profonde e vere».
- Essere comunità per evangelizzare. Oppure: La comunione nel gruppo catechisti/educatori.
Al n. 200 il Documento Base dice così:
«L’esperienza catechistica moderna conferma ancora una volta che prima sono i catechisti e poi i catechismi; anzi, prima ancora, sono le comunità ecclesiali. Infatti come non è concepibile una comunità cristiana senza una buona catechesi, così non è pensabile una buona catechesi senza la partecipazione dell’intera comunità».
Veniamo qui al punto conclusivo della riflessione: una comunità che evangelizza.
Penso sia importante recuperare questa dimensione comunitaria dell’evangelizzazione. Gesù manda i suoi discepoli a due a due (Mc 6,7), come a dire: rendete visibile quella pace, quella concordia, quella comunione che predicate! E anche il comandamento nuovo suona chiaro:
«Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35).
Come viviamo il nostro essere parte di una comunità parrocchiale?
Ci stiamo dentro con umiltà? Oppure il nostro ruolo ci ha permesso di ritagliarci un posto di rispetto, un tantino sopra a tutti gli altri?
Come viviamo il gruppo catechisti/educatori? Siamo consapevoli che la comunione tra noi è ciò che più colpisce chi ci avvicina?
La fioritura di tante iniziative in parrocchia è segno della vivacità della comunità o della difficoltà di lavorare insieme, di coinvolgersi in un progetto comune?
Ricordiamoci che siamo educatori di persone che ci vedono come punti di riferimento e che poi parteciperanno alle iniziative che proponiamo, persone che impareranno da noi a stare in chiesa, a fare comunità, a camminare insieme. La posta in gioco, come vedete, è molto alta.
Con la parola comunione si intende la pienezza della compattezza interiore della comunità, del suo crescere secondo il Vangelo.
Scrive il cardinal Martini:
«La comunione, presa come punto di riferimento dei brani neotestamentari che parlano della comunità, appare composta, a sua volta, di due atteggiamenti: la PIETAS e la BENEVOLENTIA.
La PIETAS è il senso fiducioso, affettuoso di appartenenza a una comunità.
Su tale pietà si basa la compattezza familiare e anche quella ecclesiale. È una logica che nasce dallo Spirito, è la capacità di fidarsi vicendevolmente, di appoggiarsi effettivamente gli uni agli altri, è il sentirsi portati gli uni dagli altri.
La BENEVOLENTIA verso chi ancora non partecipa a una famiglia, a una comunità, all’unità di Dio e dei profeti, è la gioia di far contenti gli altri e di andare loro incontro con l’annuncio della salvezza.
Da questi due atteggiamenti nasce la saldezza della comunione ecclesiale, la sua solidità.
I frutti concreti della COMUNIONE (fatta di PIETAS e BENEVOLENTIA), che unisce in maniera lieta e creativa il corpo della comunità, li troviamo chiaramente elencati da Paolo nella lettera ai Galati. Anzi, l’Apostolo parla di un unico “frutto dello Spirito”, che poi specifica in diversi termini (5,22).
Si tratta di atteggiamenti del cuore, interiori:
amore – cordialità, simpatia, cuore aperto;
gioia – serenità d’animo, capacità di comunicare la gioia, di consolare;
pace – capacità di portare e mettere la pace;
magnanimità – capacità di sopportare situazioni pesanti, tempi lunghi, senza stancarsi.
Si tratta di atteggiamenti delle labbra:
benevolenza e mitezza – accoglienza, gentilezza nel parlare, dignità, fiducia nella persuasione e non nella violenza, esclusione di ogni volontà di nuocere, fiducia che attraverso la comprensione reciproca, la parola persuasiva e cortese si ottiene di più che con l’opposizione.
Si tratta di atteggiamenti delle mani:
bontà, fedeltà e dominio di sé – bontà, senso del dare e del fare del bene attorno a sé, generosità, capacità di dare volentieri.
Matura è la comunità capace di produrre questo frutto dello Spirito.
L’evangelizzazione è un rendere presente il Cristo risorto attraverso la proclamazione della Parola e, al tempo stesso, attraverso un contesto di segni dello Spirito.
Non si riduce alla semplice enunciazione del fatto, ma tende a rendere presente il Cristo in un contesto percepibile; i segni dello Spirito sono le costanti della vita comunitaria, di un popolo in pienezza di comunione con Dio.
Il rapporto tra comunione ed evangelizzazione è quindi evidente: la comunità cristiana rende presente il Cristo risorto, perché ne mostra i segni in atto, il frutto dello Spirito. L’evangelizzazione è parola in azione» (C. M. Martini, Vivere i valori del Vangelo, Einaudi).
- Conclusione
Vorrei concludere con una citazione del beato cardinal Schuster, Arcivescovo di Milano, che lasciò un ricordo particolare ai seminaristi di Venegono:
«Voi desiderate un ricordo da me.
Altro ricordo non ho da darvi che un invito alla santità.
La gente pare che non si lasci più convincere dalla nostra predicazione, ma di fronte alla santità, ancora crede, ancora si inginocchia e prega.
La gente pare che viva ignara delle realtà soprannaturali, indifferente ai problemi della salvezza.
Ma se un Santo autentico, o vivo o morto, passa, tutti accorrono al suo passaggio.
Ricordate le folle intorno alla bara di don Orione?
Non dimenticate che il diavolo non ha paura dei nostri campi sportivi e dei nostri cinematografi ma ha paura, invece, della nostra santità».
Siano queste parole un ricordo forte anche per noi che desideriamo essere cristiani, testimoni gioiosi del Risorto!
View Comments (1)
Quando i ragazzi non vengono bisogna cercarli. Non aspettare che vengono solo a Natale. Abbiamo la bellissima parabola del Pastore che va a cercare la pecora che non è nell'ovile. Gesù l'ha detta per farci capire e metterla in pratica. Poi bisogna coinvolgere la famiglia.