poveriDi Cristina Dobner

Qualunque sia stato il percorso della nostra vita, l’origine della nostra famiglia e delle relazioni interpersonali intessute, almeno una volta ci sarà capitato di leggere nel volto del nostro interlocutore una sorta di assenza dinanzi a quanto stavamo comunicando. Perché?
Quanto dicevo, magari con sommo ritegno e fatica, cadeva in un baratro di indifferenza. La ricaduta era pesante: solitudine e disinganno, in rapporto fraterno di amicizia che ormai mostrava una cicatrice.
Come, a nostra volta, non palesare l’indifferenza o meglio come non lasciarla albergare dentro di noi?
Francesco, nostro vescovo, ci prende per mano e non ci lascia nel buco nero a macerare, la sua proposta quaresimale è ben chiara e stimolante.
Tutto parte da Dio stesso: “Dio non ci chiede nulla che prima non ci abbia donato: ‘Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo’ (1 Gv 4,19). Lui non è indifferente a noi. Ognuno di noi gli sta a cuore, ci conosce per nome, ci cura e ci cerca quando lo lasciamo. Ciascuno di noi gli interessa; il suo amore gli impedisce di essere indifferente a quello che ci accade”.
Questa è la matrice da cui possiamo plasmare il nostro cuore, per non essere fredde lastre di marmo dinanzi a chi con noi condivide il quotidiano, impervio o gioioso che sia.
Francesco si è reso conto che il denominatore della globalizzazione che impera sugli umani è proprio l’indifferenza. La nostra cultura quindi porta il triste marchio della “globalizzazione dell’indifferenza”.
Senza parere l’intonazione è tragica, gravemente tragica, perché quando ci si scopre indifferenti, molta acqua è passata sotto i ponti e ha cancellato ogni moto della coscienza che istintivamente ed evangelicamente si rivolga all’altro e alla sua difficoltà.
Nella sua diagnosi il nostro pastore tocca il punto nevralgico: la mia personale comodità non deve essere alterata o scossa. Io conto più di tutti e più di qualunque necessità che un’altra persona nelle strettoie dimostri, magari tacitamente, di soffrire.
In fin dei conti, è la morte dell’anima, quella del profondo sentire che si riveste di una cellulite spirituale di difesa. Una barriera perché nulla turbi.
Carente è il legame di solidarietà, del sentirsi un solo corpo, sempre e in ogni situazione.
Per il/la credente il passo previo, non di profilassi come in tempi di influenza ma di reale mutamento del sé, è comprendere che “si può testimoniare solo qualcosa che prima abbiamo sperimentato. Il cristiano è colui che permette a Dio di rivestirlo della sua bontà e misericordia, di rivestirlo di Cristo, per diventare come Lui, servo di Dio e degli uomini”.
Nulla viene direttamente da noi e la prima indifferenza da sbloccare è quella che ci impedisce di guardare e ascoltare il Padre e lasciarsi trapassare dall’interrogativo “Dov’è tuo fratello?”: “Per ricevere e far fruttificare pienamente quanto Dio ci dà vanno superati i confini della Chiesa visibile in due direzioni”.
Dobbiamo introiettarle, pensarle e lasciarle maturare, “unendoci alla Chiesa del cielo nella preghiera. Quando la Chiesa terrena prega, si instaura una comunione di reciproco servizio e di bene che giunge fino al cospetto di Dio. Con i santi che hanno trovato la loro pienezza in Dio, formiamo parte di quella comunione nella quale l’indifferenza è vinta dall’amore”: la riuscita è quindi garantita, non perché “lassù” i conti tornino nella quadratura del cerchio ma perché la sofferenza vi è entrata con il Cristo crocifisso e glorioso e con quella di tutti coloro che lo hanno seguito e ha trovato il suo senso redentivo e fraterno.
“La Chiesa per sua natura è missionaria, non ripiegata su se stessa, ma mandata a tutti gli uomini. Questa missione è la paziente testimonianza di Colui che vuole portare al Padre tutta la realtà ed ogni uomo. La missione è ciò che l’amore non può tacere”. L’indifferenza ci assomiglia alle tre famose scimmiette: turarsi gli orecchi, tapparsi gli occhi e chiudersi la bocca.
Quaresima invece è ascolto, sguardo e parola di conforto.

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