Rapito all’età di dieci anni, portato nella boscaglia in nord Uganda e addestrato a sparare, a combattere, a uccidere. Poi la resa. La storia di Dominic Ongwen è la stessa di migliaia di bambini dell’Uganda settentrionale entrati loro malgrado a far parte del famigerato “Lord’s Resistance Army” (LRA) di Joseph Kony, il signore della guerra che è tra i più importanti ricercati della Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja. Del gruppo armato, gestito come se fosse una setta, Ongwen era arrivato, a 30 anni, ad essere uno dei capi, uno degli uomini più vicini al leader, che ancora sfugge alla cattura. Il suo luogotenente, l’ex bambino-soldato, invece, all’inizio di gennaio si è consegnato ai militari statunitensi impegnati nella caccia al ricercato eccellente nell’est della Repubblica Centrafricana. Consegnato al governo ugandese, è atteso ora – a sua volta – da un processo davanti ai giudici internazionali.
Futuro incerto. “La resa di Ongwen può essere una benedizione e mettere fine alla guerriglia dell’Lra, ma se gestita male potrebbe trasformarsi in una maledizione, perché il conflitto non finirà”. Monsignor John Baptist Odama, arcivescovo di Gulu, in nord Uganda, che commenta con il Sir l’arresto del guerrigliero, ha visto per anni da vicino gli effetti della ribellione cominciata negli anni Ottanta. Anche ora che le attività di Kony e dei suoi uomini, ridotti a poche centinaia, si sono spostate da anni negli stati vicini (Sud Sudan, Repubblica Centrafricana e Repubblica Democratica del Congo) sa che la via della vera pace è ancora lunga. “Questa vicenda – sostiene – va gestita nella maniera che ci ha indicato l’esortazione ‘Africae Munus’ di Benedetto XVI: portando avanti insieme giustizia, pace e riconciliazione, anche se siamo tutti consapevoli che questo non avverrà per magia, che ci saranno problemi…”. Il primo è proprio quello degli ex bambini soldato, che sono riusciti a scappare dalla boscaglia o sono stati catturati, durante i combattimenti, dall’esercito ugandese. Le loro difficoltà di reinserimento sono enormi, come è facile aspettarsi per persone cui è stato insegnato a fare della violenza un riflesso condizionato. Anche la comunità spesso rifiuta di reintegrarli, non fidandosi di loro, e li spinge verso la marginalità e – in vari casi – la dipendenza da droghe. La difficoltà di ricostruirsi una vita, del resto, è comune: ancora nel 2011, anno a cui risalgono gli ultimi dati, oltre 29 mila persone erano da considerarsi sfollati interni, gli ultimi di quel milione e ottocentomila che la guerra civile aveva spinto lontano dalle loro case. Molti di loro ancora aspettano le compensazioni promesse dal governo ugandese e fanno i conti con dispute terriere e questioni di violenza domestica: il conflitto lascia i suoi strascichi anche nelle relazioni interpersonali.
Esempi di perdono. “Le situazioni irrisolte del passato potrebbero diventare sorgente di nuovi conflitti”, teme anche mons. Odama, secondo cui “la situazione nell’area è così complessa da non poterne gestire tutti gli aspetti insieme, ma stiamo provando a farlo passo dopo passo”. Uno è la settimana della pace che viene celebrata ogni anno con incontri e preghiere, a gennaio. L’ultima si è svolta a Lira, dove, alla presenza di leader religiosi, i protagonisti di scontri spesso più vecchi dello stesso Lra (alcuni risalgono addirittura a fine anni Settanta) raccontano le loro versioni della storia e si chiedono reciprocamente perdono. “L’odio del passato non ci rende più schiavi”, commenta l’arcivescovo, ricordando anche la reazione di uno dei capi locali alla notizia dell’arresto di Ongwen. “Abbiamo già perdonato i ribelli, non c’è bisogno di chiedercelo di nuovo”, ha detto l’uomo, secondo la testimonianza dello stesso presule. Quello del luogotenente di Kony, ricorda mons. Odama “è un caso individuale, che potrà concludersi con la condanna o con l’assoluzione” all’Aja, ma la questione da affrontare è più ampia. “La comunità internazionale – continua l’arcivescovo – dovrebbe prendere una posizione chiara su questi ex combattenti bambini, che hanno fatto quel che era stato insegnato loro, senza che avessero un’alternativa”. Pur tra le difficoltà, molti a Gulu sembrano intanto aver accettato di non trattarli più da semplici criminali. Persino “alcuni leader ribelli del passato – ricorda infatti mons. Odama – vivono nella zona, sono stati perdonati e oggi sono liberi”.