Di Daniele Rocchi
Kobane è stata liberata. La città curda siriana, diventata il simbolo della resistenza contro l’avanzata dei jihadisti del califfo Abu Bakr Al Baghdadi, è stata riconquistata, dopo oltre 130 giorni di assedio, dai peshmerga, i combattenti curdi, dai curdi turchi del gruppo armato indipendentista Pkk e dalle Unità di protezione del popolo (Ypg). Sulla collina di Mistenur che domina la città, non distante dal confine con la Turchia, sventola ora il tricolore curdo. Quello che rischiava di diventare un vero e proprio massacro, vista la preponderanza delle forze dello Stato Islamico, che aveva messo in campo i suoi battaglioni migliori formati soprattutto da fighters ceceni, si è trasformato in una vittoria che i peshmerga, hanno raggiunto combattendo casa per casa, metro per metro. Una vittoria guadagnata sul campo tra mille difficoltà. Prima fra tutte, quella posta dalla vicina Turchia che per troppo tempo ha impedito il rifornimento di uomini e armi ai curdi assediati. Il Paese della Mezzaluna è stato più volte accusato di appoggiare in Siria i ribelli, anche jihadisti, con l’obiettivo di rovesciare il presidente Bashar al Assad e di impedire la nascita di una regione autonoma curda nel Nord. I 150 peshmerga arrivati da Erbil (Kurdistan iracheno) a rinforzo, erano ben poca cosa rispetto alle forze fresche che lo Stato Islamico riusciva a mandare giornalmente al fronte. Importante, va anche detto, è stato l’apporto fornito dai raid aerei della coalizione a guida Usa, l’80% dei quali hanno avuto come bersaglio i miliziani dell’Is appostati nelle zone intorno a Kobane. La conta parla di oltre 1600 morti, 1200 dei quali appartengono allo Stato Islamico. Moltissimi i foreign fighters, i combattenti stranieri, che hanno perso la vita sui due fronti.
La notizia della liberazione. È stato direttamente il Comando centrale delle forze armate statunitensi (Centcom) che, dopo una fase di cautela iniziale, ha confermato quanto già anticipato dall’Osservatorio siriano per i diritti umani. Il Centcom si è anche congratulato con le forze curde che “hanno combattuto aggressivamente” avvertendo però che la “lotta contro l’Is è tutt’altro che finita”. Grande la gioia delle decine di migliaia di curdi rifugiati nei campi profughi in Turchia e nel Kurdistan turco. Si stima che da quando lo Stato islamico ha attaccato Kobane a settembre, oltre 200mila persone siano riparate in Turchia. Guadagnato sul campo l’appellativo di “Stalingrado curda”, oggi Kobane è una città fantasma e secondo quanto riferito dal comando dei peshmerga, ci vorranno almeno 50 anni per ricostruirla. Ma prima servirà “fare piazza pulita” delle bandiere nere del Califfo che ancora sventolano nei villaggi circostanti come annunciato alla tv al Arabiya dal responsabile media dell’Ypg, Rdiru Khalil. “I combattimenti con l’organizzazione estremista si concentrano ora nei villaggi intorno alla città sui tre fronti: orientale, occidentale e meridionale”. Alla sconfitta di Kobane si è aggiunta, per il califfo Abu Bakr al Baghdadi, anche quella nella provincia irachena nord orientale di Diyala riconquistata dalle truppe di Baghdad e soprattutto dalle milizie sciite Badr appoggiate dall’Iran. A questo punto, la riconquista di Mosul da parte delle forze irachene potrebbe essere un obiettivo non troppo lontano.
L’offensiva anti-Isis. Da metà settembre gli aerei della coalizione avrebbero ucciso circa 6 mila miliziani, costringendo i jihadisti a cambiare radicalmente atteggiamento. Non più sgozzamenti in diretta video dalle colline di Raqqa per mano di Jihadi John ma il tentativo di trattare il rilascio di ostaggi come accaduto con il reporter giapponese Kenji Goto, rilasciato oggi in cambio della kamikaze Sajida al-Rishawi detenuta in Giordania. È un Is che arretra, ma non è ancora sconfitto. Lo testimonia, in Libia, l’attacco di un commando del Wilayat, affiliato all’Is, all’Hotel Corinthia residenza del primo ministro Omar al Hassi e sede di diverse ambasciate. La guerra senza confini dello Stato Islamico tocca ora anche il Paese nordafricano, diviso al suo interno e ponte per giungere in Europa. Un rapporto, attribuito dai media libici allo stesso Is, attesterebbe il tentativo jihadista di arrivare in Europa, con gli stessi barconi usati da migliaia di migranti in partenza proprio dalle coste libiche. La strategia del Califfato sembra muoversi su due direttrici: da una parte incoraggiare la formazione di piccoli gruppi in zone di crisi come la Libia, il Sinai e l’Afghanistan e dall’altra rinvigorire i propri sostenitori incitandoli a portare attacchi casuali, spontanei, e quasi inarrestabili su piccola scala. Una strategia necessaria al Califfato per minimizzare le perdite e creare più terrore possibile. Nel momento in cui la guerra contro l’Is si sta spostando verso Mosul questo cambio di strategia chiede alla comunità internazionale un supplemento di vigilanza, di coordinamento e di strumenti, anche legislativi, per non farsi trovare impreparata.