Di Irene Argenterio
Lo scorso fine settimana a Bressanone l’assemblea dei sinodali che partecipano al secondo Sinodo diocesano si è espressa chiaramente a favore dell’abolizione del celibato sacerdotale, del diaconato femminile, dell’ordinazione femminile, la comunione per i separati divorziati e l’amministrazione dell’unzione degli infermi da parte di laici.
Non essendo argomenti di pertinenza di un vescovo diocesano, l’assemblea non li ha votati, ma ha comunque espresso un’opinione, che confluirà in un documento che – fin dall’inizio del Sinodo – il vescovo di Bolzano-Bressanone, Ivo Muser, si è detto disponibile a presentare ai vertici della Chiesa.
Al di là dell’analisi della consultazione – da cui emerge che con molta probabilità non solo i laici, ma anche alcuni consacrati si sono dichiarati favorevoli al diaconato femminile, alla comunione ai separati risposati e all’amministrazione dell’unzione degli infermi da parte di laici – quello che è emerso dalla terza assemblea sinodale invita a riflettere. E non tanto sulla materia in sé (che tutti sanno essere di competenza della Chiesa universale), ma sulle ragioni che hanno portato ad una chiara posizione di fronte a quelli che vengono considerati i “temi tabù”.
Non c’è dubbio che la notizia è di quelle che danno fiato al dibattito sui vari mezzi di comunicazione e che qualcuno può addirittura pensare che possa “far tremare le colonne del tempio” (anche se, sinceramente, sono convinta che il colonnato del Bernini, che ha retto splendidamente per tanti secoli, riuscirà a sopportare anche questo scossone).
Non credo sia un atteggiamento costruttivo fissare la propria attenzione sul “dito che indica la luna”: per quanto “diocesi di confine”, quella altoatesina non è una diocesi “rivoluzionaria”.
Non spetta certo a noi, inoltre, puntare tutte le nostre energie a fissare la luna. Non ci è dato sapere se fra dieci, venti o trent’anni ci saranno le donne-prete o se “anche i preti si potranno sposare” (come cantava Lucio Dalla ne “L’anno che verrà”). Non possiamo neanche sapere se in futuro ci saranno dei laici incaricati di amministrare l’unzione degli infermi (che in questo caso sarà svincolata dal sacramento della riconciliazione).
Quello che possiamo cercare di osservare è la mano da cui si è alzato quel dito che indica la luna. Perché se quel dito si è levato in alto, superando la paura di essere criticato, giudicato e messo in disparte per le proprie idee, una ragione c’è. Ed è su quella ragione che noi, oggi, come Chiesa locale e come Sinodo diocesano, possiamo cercare di fare qualcosa. Senza avere la supponenza di risolvere certo tutti i problemi o di avere la bacchetta magica in tasca. Ma con chiarezza e trasparenza e grande semplicità.
Credo che in questo si possa “declinare” l’invito di Papa Francesco ad essere “ospedale da campo”, luogo in cui curare le ferite della vita con la medicina del Vangelo.
È bene allora chiedersi come mai sia, ad esempio, così forte l’istanza del diaconato (o del sacerdozio) femminile. Una risposta la si può trovare proprio nel dibattito di sabato scorso, quando una sinodale ha ricordato all’assemblea che nelle parrocchie le donne non devono essere utili solo per pulire la chiesa.
Ed è bene interrogarsi sul perché sia così forte oggi la richiesta di permettere ad alcuni laici di amministrare il sacramento dell’unzione degli infermi. Se ci si ferma a “guardare il dito” si è tentati magari a pensare che i laici vogliano fare i preti, quasi fossero alla ricerca di “celebrità”. Forse sbaglio, ma credo che non sia così: confrontarsi con la malattia, con il dolore e accompagnare le persone nel loro ultimo tratto di cammino terreno è tutt’altro che facile e non è certo fonte di “glorie terrene”.
Se però, anche in questo caso, si guarda alla “mano”, si scoprono le ragioni di una simile richiesta. Quando, infatti, nel corso del dibattito sinodale, un’assistente pastorale ospedaliera racconta che spesso le capita di dover fare sei o sette telefonate per trovare un sacerdote che abbia il tempo per portare il sacramento dell’unzione ad un malato che ne ha fatto richiesta, allora molte cose si fanno più chiare.
E ci siamo chiesti come mai è tanto forte la richiesta di ammettere alla comunione anche i separati divorziati? Non è che queste persone, nelle nostre comunità, non si sentono ancora veramente accolte, ma vivono l’imbarazzo di essere continuamente giudicate perché al momento dell’eucaristia rimangono sedute tra i banchi, mentre i vicini si alzano?
Noi non possiamo risolvere i problemi. Il nostro compito oggi è quello di guardare a queste situazioni, di non distogliere lo sguardo da queste ferite, di non rimandare semplicemente il tutto ad altri, nascondendosi dietro a un “non è di mia competenza”. Perché questi problemi che si presentano a noi oggi. Qui ed ora.
Noi non possiamo sanare queste ferite, ma possiamo cercare di fasciarle, con il poco (che poi tanto poco non è) che ci è messo a disposizione. Con un po’ più di accoglienza, con un po’ più di attenzione, con un po’ più di quella carità evangelica e di quella misericordia che anche noi abbiamo ricevuto in dono.
Il dito oggi indica la luna. Per secoli e secoli l’uomo ha guardato alla luna, sognando di raggiungerla. Nel frattempo però non è rimasto immobile in attesa di vedere realizzati, quasi per magia, i suoi sogni.
Il dito oggi indica la luna. Ma noi proviamo a guardare anche la mano, cerchiamone le ferite, abbracciamole, fasciamole.
Il dito continuerà a indicare la luna. Ma la mano sarà meno dolorante. Se riusciremo in questo, noi la luna l’avremo già raggiunta.