A trionfare nella notte degli Oscar è stato un supereroe. Ma non un supereroe alla Batman, Spiderman o gli altri a cui siamo abituati dalle pellicole recenti, tutti effetti speciali e coraggio, senza macchia e senza paura. Si tratta di “Birdman”, pellicola diretta dal messicano Alejandro Gonzalez Inarritu, storia di un attore diventato famoso grazie alla sua interpretazione di un supereroe, ma poi dimenticato e caduto in disgrazia, che tenta di rilanciare la sua carriera sulla scena teatrale di Broadway. Un uomo fragile, dall’ego spropositato, sull’orlo di una crisi di nervi. Un film totalmente distante dai blockbuster fantascientifici e tratti dai fumetti a cui il cinema americano ci ha abituato e che, anzi, li dileggia, senza troppe velature, all’interno della vicenda raccontata. Un trattato sulle debolezze umane, gli egoismi, le paure. Che Hollywood stia indicando una nuova rotta per i suoi prodotti cinematografici? Quello che è certo è che per il secondo anno consecutivo è stato un messicano a vincere i premi più ambiti. Dopo Alfonso Cuaron lo scorso anno con “Gravity”, è stata la volta di Inarritu che con il suo film ha ottenuto quattro statuette “pesanti”: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale e miglior fotografia. Hollywood è sempre stata attenta ad accogliere al suo interno autori provenienti dall’esterno e, anzi, la grandezza del cinema americano è stata, e continua ad essere, proprio quella di saper innovare senza modificare troppo le fondamenta su cui si è costituita. Nel passato erano gli autori europei ad emigrare e a riformulare secondo le loro estetiche il linguaggio cinematografico americano, oggi la spinta innovativa arriva da altre realtà, di cui il Messico (si pensi anche al regista Guillermo Del Toro) è la punta di diamante. Un segnale importante anche da un punto di vista della realtà, visto che in America la “minoranza” messicana sta diventando sempre più forte e rilevante nel tessuto sociale.
Il premio per i miglior attori è andato a Eddi Redmayne e Julianne Moore, rispettivamente per “La teoria del tutto” e “Still Alice”. Il primo film è la biografia dell’astrofisico Stephen Hawking, costretto su una sedia a rotelle, impossibilitato a muoversi e a parlare, se non con l’ausilio di un computer; il secondo è sempre tratto da una storia vera e racconta di una giovane donna, insigne professoressa di Linguistica alla Columbia, colpita dal morbo di Alzheimer. Due statuette che confermano la passione di Hollywood per le performance attoriali capaci di rendere al meglio le malattie, fisiche o mentali, ancora meglio se per fare ciò bisogna imbruttirsi. Come miglior attori non protagonisti sono stati premiati Patricia Arquette per “Boyhood” e J. K. Simmons per “Whiplash”: due film “indipendenti”, girati cioè a basso budget e al di fuori delle logiche dei grandi studios.
Insieme ai quattro premi Oscar in categorie più “tecniche” (tra cui quello per i miglior costumi alla nostra Milena Canonero) alla pellicola di Wes Anderson “Grand Budapest Hotel”, queste statuette confermano che Hollywood guarda e punta con sempre più attenzione anche ai film più “piccoli” (per budget e dimensioni), ma capaci di raccontare storie vere (come per “Boyhood”, che riprende la vita di un ragazzo seguendolo per 16 anni consecutivi) o sofisticate e piene di riferimenti letterari (“Grand Budapest Hotel”). L’oscar al miglior film d’animazione è andato a “Big Hero VI” della Disney, che si conferma regina incontrastata del mondo dell’animazione con storie rivolte oramai a un pubblico trasversale, non più solo di bambini. Come miglior film straniero è stato premiato il polacco “Ida”, bellissima pellicola in bianco e nero che racconta la formazione di una giovane suora nella Polonia comunista, opera di rigore formale e morale che ricorda le pellicole di Bresson. Segno che Hollywood non dimentica l’attenzione alla spiritualità, che è sempre stata al centro del suo sistema cinematografico, e che oggi, troppo spesso, si vorrebbe emarginare.