Con l’enorme difficoltà che costa in Italia cambiare qualcosa, il governo Renzi sta inanellando punti su punti nel tentativo di rilanciare l’economia italiana, pur nell’assoluta carenza di risorse economiche a disposizione. Perché fare sontuose nozze con i fichi secchi – senza cioè denari da poter spendere e spandere – è esercizio obiettivamente difficile. Così l’esecutivo s’è mosso tramite investimenti mirati, e cambiamenti di regole. Una sforbiciata all’Irap per far respirare le aziende dal punto di vista fiscale (e non farle scappare vieppiù all’estero); i famosi “80 euro” che sono stati la prima restituzione di denaro in busta paga a memoria di lavoratore italiano; la scelta che si avrà di trasferire volontariamente nel salario anche il Tfr; il tentativo di salvare l’Ilva, la più grande acciaieria italiana; le mani sulla scuola italiana, cioè sulle radici dalle quali si svilupperà la buona occupazione di domani… Insomma, tanta carne al fuoco, soprattutto se al carico si aggiunge il Jobs Act.
Ora l’iter legislativo s’è completato e si può assumere con le nuove regole; c’è chi le ha soppesate con particolare attenzione dal lato dei licenziamenti, ma la vera portata della nuova legge sta dall’altra parte del manico: si può assumere più facilmente, con più convenienza (fiscale) per l’azienda, con molte più probabilità per il giovane di un inserimento in azienda, piuttosto che un continuo sfruttamento nel segno del precariato. Se si pensa che la flessibilità dell’ultimo decennio s’era trasformata quasi completamente in precariato, prima lavorativo e poi quasi esistenziale… Proprio in queste ore Confindustria parla della possibilità di creare 150mila nuovi posti di lavoro entro un anno. Noi tutti li aspettiamo con trepidazione.
Si può fare di più? Sempre. Soprattutto, d’ora in poi servirebbe una politica industriale più raffinata, capace di aggiustare la mira e colpire nei due-tre punti vitali per la nostra economia. La fase emergenziale pian piano deve lasciare il posto ad una strategia di rilancio per i prossimi decenni, non per i prossimi mesi.
Ma togliamoci dalla testa che le cose possano andare bene per decreto legge. La politica fa la cornice, il quadro lo dovrebbero fare gli operatori economici. Vuol dire investire, crescere in dimensioni, superare quell’individualismo italico che nel mondo globalizzato è solo un limite, sfidare nuovi mercati, innovare il prodotto e promuoverlo con efficacia. Fare il mestiere dell’imprenditore, insomma: ci sono più imprese nel Nordest che in tutta la Russia, non possiamo aver cancellato qualcosa che abbiamo nel Dna da secoli.
E non è vero che tutto è impossibile. Forse la dichiarazione di Renzi (“la nostra manifattura raggiungerà quella tedesca”) è una smargiassata, ma il rilancio di Fiat e Maserati stanno a significare che, con buone idee e rimboccandosi le maniche, siamo ancora noi gli artefici della nostra fortuna.
Se proprio proprio il governo vorrà dare una bella propulsione al tutto, indichiamo due strade interessanti: la rivoluzione del mercato dei capitali (la Borsa è minuscola, non si può passare sempre attraverso le banche e c’è tanta liquidità in cerca di occasioni). E una falciata – vera – alla selva di burocrazia che ammorba la vita degli italiani e spaventa terribilmente gli stranieri. Perché dentro vi vedono assurdi ostacoli all’intraprendere, giustificati o per tenere in vita una colossale macchina pubblica, o per foraggiarla tramite buste “lubrificanti” degne di un Paese del Terzo mondo. Adelante, dunque, e senza tanto juicio.