Ma poi, da altri particolari del suo racconto emerge che, con ogni probabilità, quello che Michele definisce come “eutanasia silenziosa”, in realtà è solo l’applicazione del giusto rifiuto di ogni forma di accanimento terapeutico, magari dopo un faticoso discernimento clinico operato insieme al paziente (o chi ne fa le veci). Ma al lettore superficiale resta il messaggio tra le righe che esiste, in molti luoghi, una specie di “eutanasia cattolica”, di solito “silenziosa”. Alt, un po’ di chiarezza.
La norma giuridica può anche essere ambigua nella sua formulazione e, di conseguenza, nella sua applicazione.
La norma morale al contrario non lo è mai, perché la sua forza non risiede nella sua formulazione letterale ma nel bene che indica ed esige. Se cerchi di essere un uomo giusto e buono mediante le tue scelte e azioni, non potrai certo cavillare sulle definizioni per metterti al riparo dal giudizio della tua stessa coscienza. Moralmente, un atto di eutanasia è chiaramente individuato da due elementi: la scelta di procurare anticipatamente la morte di qualcuno per lenire la sua sofferenza; la messa in pratica di questa scelta attraverso mezzi idonei al raggiungimento di questo obiettivo. Se nell’azione concreta manca uno di questi fattori o entrambi, non si è mai in presenza di un gesto di eutanasia in senso proprio. Chi non vuole procurare la morte anticipata del paziente (e non ne fa l’oggetto diretto della propria intenzione), ma opera con scienza e coscienza per curarlo nel miglior modo possibile durante la fase terminale della sua vita, insieme astenendosi da ogni forma di accanimento terapeutico, moralmente non sta compiendo alcun atto di eutanasia. L’amore per la vita passa anche per l’onesta educazione delle coscienze.