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Fra Serbia e Croazia solo l’Europa può mettere il dito

da Sofia, Iva Mihailova

Vent’anni dopo lo storico accordo di Dayton che ha messo fine alla tragica guerra tra la Serbia e la Croazia e ha sancito la nascita dell’odierna Bosnia-Erzegovina, la pagina dolorosa del passato non si riesce a chiudere. Gli abitanti di Vukovar, i parenti delle vittime e delle persone scomparse, le migliaia di rifugiati che ancora oggi si trovano ai margini della società continuano ad aspettare la giustizia che tarda ad arrivare. L’unica speranza per risolvere i contenziosi passati e presenti tra i Paesi dei Balcani occidentali sembra essere l’adesione all’Unione europea. Ecco la valutazione dell’analista politico serbo Dragan Janjic, membro del Forum per i rapporti internazionali a Belgrado.

La guerra in Jugoslavia del 1991-95 è stata violentissima, con innumerevoli morti e sfollati. Eppure poche persone sono state dichiarate colpevoli dei misfatti compiuti e hanno scontato una pena. Perché?
“Ci vuole del tempo, è un processo ancora in corso che rimarrà aperto per i prossimi decenni. I governi locali dovrebbero impegnarsi di più e cooperare insieme per cercare la verità storica, processare i propri criminali, risolvere il problema delle persone scomparse e offrire adeguate riparazioni alle vittime. Purtroppo le voci nazionalistiche sono forti sia in Serbia sia in Croazia e ostacolano il processo. Non so dire quanto tempo occorrerà per vedere finalmente sepolta l’ultima guerra e, assieme ad essa, le divisioni che in un secolo hanno più volte cambiato la mappa dei Balcani”.

L’ultimo fatto è stata la sentenza della Corte internazionale di giustizia dell’Aia, all’inizio di febbraio, che ha respinto le accuse di genocidio presentate da Serbia e Croazia. Qual è il suo commento?
“Il verdetto è molto importante per il futuro, perché aiuterà a calmare gli animi in ambedue le parti che, speriamo, coglieranno l’opportunità d’iniziare una nuova stagione nei rapporti, liberi dall’ombra delle accuse di genocidio. Certamente questa sentenza non soddisfa le persone colpite dalla guerra che da anni aspettano giustizia. I processi in corso sono molto lenti, sia in Serbia sia in Croazia, e ognuno dei Paesi cerca di minimizzare quello che hanno compiuto le proprie truppe di militari o paramilitari, mentre si è subito disponibili a processare quello che ha fatto l’altra parte. Il problema in Serbia è legato soprattutto ai profughi evasi dopo l’operazione Tempesta (Oluja) che si trovano oggi ai margini della società, senza lavoro, senza niente. E molti di loro non possono neanche tornare nelle loro città in Croazia perché rischiano di essere arrestati. Non ci sono colpevoli anche per i crimini commessi dai serbi nei confronti della popolazione croata nelle Slavonie e in Krajna. Ma la riconciliazione con il passato non si può costruire con mutue accuse di genocidio”.

Crede che tra Croazia e Serbia potrebbe nascere una via di pace e collaborazione, soprattutto in chiave europea?

“Senza la mediazione dell’Ue, gli strascichi della guerra non potranno essere eliminati del tutto. L’Europa rimane l’unica via possibile di stabilità nei Balcani occidentali, e anche per l’Ue quest’area è importante, a causa dell’influenza crescente della Russia. Quando Serbia e Croazia facevano parte della Federazione della Jugoslavia, le relazioni tra i due Paesi erano molto buone. E io penso che se questi due Stati fossero membri dell’Ue, si creerebbe un’atmosfera migliore che porterebbe alla soluzione dei contenziosi”.

Il problema del Kosovo e della sua indipendenza rimane aperto per la Serbia. Quali prospettive vede in tale direzione?

“La verità è che il Kosovo è indipendente e la Serbia non può farci niente ormai. In realtà, lo Stato serbo non è pronto a riconoscere ufficialmente questa indipendenza ma in pratica le azioni di Belgrado nei confronti di Pristina sono verso uno Stato indipendente. L’ultima prova ne è l’accordo raggiunto su giustizia e magistratura del Kosovo con la mediazione dell’Ue. Qui la situazione è molto più complicata delle relazioni con la Croazia perché prima della guerra il Kosovo era parte integrante della Serbia, anche se era una provincia autonoma. Alla fine Belgrado dovrà riconoscere questa indipendenza, ma anche in questo caso ci vorrà del tempo”.

Il 6 giugno Papa Francesco visiterà Sarajevo per suscitare “fermenti di bene” e consolidare la “fraternità e la pace”. Quali effetti potrebbe avere questa visita?
“La visita del Papa a Sarajevo è molto importante per tutta l’area dei Balcani. Noi abbiamo bisogno di parole di pace e di tolleranza che sicuramente il Papa porterà perché le religioni non possono essere sfruttate in nome della guerra e della violenza. E questo è valido non solo per il passato jugoslavo ma soprattutto oggi, quando in Bosnia si nota l’influenza dell’Isis e molti musulmani partono per combattere in Siria. Certamente questa visita porterà serenità nei rapporti e aiuterà il dialogo tra le religioni”.

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