DIOCESI – Massiccio del Sinai il Gebel Safsafah, fronte ovest del Gebel Mousa. A partire dal IV sec. d.C. il monte dell’incontro (chiamato dalla Bibbia Sinai o Oreb, secondo le diverse tradizioni) è stato identificato in una montagna detta di Mosè nel sud della penisola sinaitica, ai cui piedi sorge ora il monastero bizantino di Santa Caterina.
SECONDA TAPPA DELLA QUARESIMA.
In questa seconda domenica di Quaresima, la liturgia ci fa salire il monte della Trasfigurazione.
Dal deserto, luogo della prova e della tentazione ma anche luogo dell’innamoramento e del ritorno al Signore che parla al nostro cuore, secondo la profezia di Osea, oggi siamo guidati da Gesù in alto sul monte, tradizionalmente il Tàbor, dove gustiamo un’anticipazione della manifestazione della gloria del Signore. Avvolti nella nube della presenza di Dio e destati dalla sua voce potente, contempliamo la bellezza del volto del Figlio che ci rivela l’amore del Padre. «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). È l’esperienza della fede, che vede e non vede, crede e dubita, si affida e ha paura. Proprio perché è un’esperienza difficile da tradurre in parole, Marco la esprime attraverso delle immagini quali: il monte, luogo della trasfigurazione, che rimanda ad un altro monte, il Calvario, luogo dell’annientamento e della morte; la nube, oscura e luminosa allo stesso istante; la voce di Dio, che conferma la scelta del Figlio dell’uomo come via di salvezza per quanti vogliono seguirlo (cfr. Mc 8,31-38). In questo viaggio della fede, il Signore Gesù è con noi e ci precede. Se la strada diventa ardua e talora appare impossibile, la sua mano ci sorregge e ci guida. La fatica è così benedetta e c’introduce nella conoscenza del suo mistero d’amore, un amore così grande da giungere fino al sacrificio.
Della necessità che il cristiano partecipi del sacrificio redentore del suo Signore, ci parla la liturgia della Parola di questa domenica.
IL SIMBOLO DEL MONTE. Il monte è sempre stato considerato dall’uomo un luogo sacro. Essendo il luogo che più si avvicina al cielo, era facile vederlo come dimora divina. La difficoltà, addirittura l’impossibilità, per l’uomo di raggiungerne la vetta, o comunque di restarvi a lungo per mancanza di qualsiasi vita anche vegetale, e la presenza frequente su di essa delle nubi e soprattutto dei fulmini, che da essa sembravano sempre provenire, ne accentuavano il carattere misterioso. Dio s’inserisce nel linguaggio teofanico corrente, così come questo è compreso dall’uomo;
Dio che si manifesta presente sulla montagna, nel fuoco, nella nube, e che parla attraverso il tuono. Scalare la montagna è porsi in cammino verso il cielo. Una tipica iconografia dell’ascensione di Gesù al cielo, lo rappresenta come un alpinista che sale un’alta montagna, mentre si appoggia a un’asta terminante alla sommità con una croce; dall’alto spunta tra le nubi la mano del Padre che lo accoglie (cfr. Sportello eburneo del dittico dell’Ascensione IV-V sec., Monaco, Bayerisches National Museum). Se questa è una fantasia dell’artista, vero, invece, è stato il cammino, terribilmente faticoso, che Cristo ha percorso salendo carico della croce verso la sommità del Gòlgota.
Là, veramente, l’umanità in Gesù ha incontrato Dio e le porte del cielo, custodite dai cherubini con spada fiammeggiante, si sono spalancate. A questo momento aveva preparato anche il mistero teofanico del Tàbor: «Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro» (Mc 2 9,2). È ancora dall’alto di un monte che Gesù porta definitivamente la natura umana fuori dai limiti che la costringono: «Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava …» (At 1,9). Dunque Dio, attuando il suo progetto di salvezza, non rifiuta il linguaggio espressivo o percettivo dell’uomo; vi s’inserisce dialogando e lentamente, ma decisamente, lo modifica sublimandolo. L’idea della sacralità della montagna con la vetta comunicante col cielo è presente anche nelle costruzioni babilonesi delle ziqqurat, prototipi forse della stessa torre di Babele, nelle piramidi d’Egitto che custodiscono il corpo del faraone-dio, nei templi di Angkor e nelle grandiose costruzioni maya nell’America precolombiana. Quest’attenzione a un aspetto religioso naturale continua fino ai giorni nostri, sia pure con accentuazioni diverse, nel culto cristiano legato ai Sacri Monti. Questi, come del resto le ziqqurat e gli alti altari, hanno sviluppato un percorso penitenziale, cioè di ascesa, di purificazione. Eloquente è lo stesso andamento a spirale o a tornanti. Come realtà comunicanti tra la terra e il cielo sono state spesso pensate anche le architetture delle nostre chiese, particolarmente nel periodo gotico. Le loro numerose e altissime guglie, quali alberi svettanti dalla grandiosità della massa architettonica, portano ognuna la statua di un santo, e ben sottolineano l’immagine della beata comunità celeste (esempio tipico è il Duomo di Milano. Cfr. Obiettivo Duomo, a cura di G. RAVASI, Banca Popolare di Milano, Cinisello Balsamo 1986).
DAL MONTE DELLA RIVELAZIONE … Lo sfondo affascinante del deserto è dominato dal monte della rivelazione divina, il Sinai. Con una notizia cronologica e geografica (il terzo mese dall’uscita dall’Egitto e il deserto del Sinai) il libro dell’Esodo ci introduce nel cuore della più grande esperienza vissuta da Israele, quella dell’incontro tra il Signore e il suo popolo attraverso la grandiosa apparizione di Dio sul monte. Tuono, lampi, fumo e fuoco sono simboli della teofania, cioè della manifestazione di Dio. Nella tradizione biblica, ma anche in quella dei popoli cananei, la tempesta e il fuoco sono gli eventi caratteristici in cui si manifesta la potenza di Dio. Per questo le due immagini sono unite per descrivere la presenza di Dio (testo tipico è il Salmo 29). Questo tipo di descrizione si trova anche nei Salmi e nei Profeti (Is 29,6; Ab 3,3-6; Gb 37,4). Fondamentale rimane la voce di Dio, segno della rivelazione. S’intrecciano, quindi, terrore e intimità. Da un lato, il Signore è mistero, inavvicinabile (solo il mediatore Mosè può avere un’esperienza diretta ma sempre distante, salendo sul monte); d’altro canto, Egli vuole parlare alla sua “proprietà” e stringere con essa un’alleanza, facendosi a essa vicino. AL MONTE DELLA TRASFIGURAZIONE. Il monte è legato dunque alle grandi teofanie dell’Antico Testamento; non a caso con Gesù appaiono Mosè ed Elia. Mosè aveva ricevuto sul monte le Dieci Parole o Decalogo, mentre Elia aveva udito la voce divina in un «silenzio sottile» («Qôl dĕmāmâh dāqâh»: 1Re 19,12). Mosè rappresenta la Legge mentre Elia la profezia. La loro presenza indica che Gesù è il compimento e la verità di tutte le Scritture sante. Ma il monte ci rimanda anche alle tentazioni di Gesù (cfr. Mt 4,8), come pure all’invio dei discepoli a evangelizzare le genti (cfr. Mt 28,16). Marco introduce l’episodio con una nota cronologica: «Sei giorni dopo» (Mc 9,2). A cosa allude? Con molta probabilità all’episodio della confessione di Pietro e all’invito di Gesù di portare la croce (cfr. Mc 8,27-38). Con la Trasfigurazione siamo perciò nel settimo giorno, dove si celebra il compimento della creazione e dove Dio riposa della sua opera. Sul volto di Cristo splende la gloria divina, la cui luce illumina il nostro vero volto. Sul Tàbor abbiamo un’epifania di Dio e la rivelazione dell’uomo secondo il progetto divino. Gesù sale sul monte con tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. Davanti a loro «fu trasfigurato» (Mc 9,2 – passivo divino). Nella Trasfigurazione, il Padre opera nel Figlio compenetrandolo della sua gloria. Gesù appare come il Kýrios splendido e magnifico (cfr. Sal 75,5). Accanto a lui fanno la loro comparsa anche Mosè ed Elia, la Legge (Torâh) e i Profeti (Neviîm), cioè tutto l’Antico Testamento, che così si compie in Gesù. Dunque sul Tàbor (nome di origine fenicia che significa «puro», «trasparente»), l’evento della trasfigurazione sintetizza tutta la Storia della salvezza. Difatti, gli aspetti creazionale, rivelativo e redentivo della storia di Dio con l’uomo, trovano compimento nell’uomo Gesù rivestito di gloria nel suo cammino verso la croce. In Gesù, risplendente di luce, il Regno di Dio finalmente irrompe nel mondo. Ma c’è un altro aspetto: nella trasfigurazione Gesù dà visibilità a Dio nel suo corpo d’uomo e Dio abita il corpo dell’uomo Gesù (cfr. Col 2,9). Cosa significa? Che il corpo è la via di Dio verso l’uomo e allo stesso istante la via dell’uomo verso Dio. In Gesù Dio e l’uomo s’incontrano.
La trasfigurazione ci ricorda, allora, che non dobbiamo rimuovere ciò che è umano, ma restituirlo sempre più alla sua bellezza originaria. La via è l’ascolto della Parola di Cristo (cfr. Mt 17,5), il Figlio amato sul cui volto risplende la gloria del Padre (cfr. 2Cor 4,6). Da un ascolto perseverante scaturisce la fede come adesione a Dio; dalla fede, il cristiano attinge la forza per seguire Gesù, il Maestro, sulla via della cro-3 ce; in forza della fede viene, infine, trasfigurato nell’immagine del Signore, secondo l’azione dello Spirito Santo (Cfr. 2Cor 3,18).
Sul monte, Dio indica la via della croce come via alla gloria. I discepoli hanno capito che Gesù è il Messia (cfr. Mc 8,29) e che il suo cammino porta alla croce (cfr. Mc 8,31). Ciò che però ancora non comprendono è come la croce possa racchiudere in sé la gloria.
Ecco allora che per un istante Gesù solleva il velo ed essi vedono anticipatamente lo splendore della sua maestà divina. Quest’esperienza è momentanea ed è un preludio della futura glorificazione dei credenti in Cristo. Prima però bisogna far proprie le vie di Dio (cfr. Is 55,8) e attraversare lo scandalo della croce. Mai come oggi però, in una cultura che vive l’illusoria convinzione che «tutto ciò che è tecnicamente possibile ed economicamente ottenibile è per ciò stesso lecito e auspicabile» (E. BIANCHI), la croce rischia di essere rimossa e banalizzata in mille modi. Si pensi, ad esempio, al tentativo di rendere il Vangelo attraente liberandolo da ogni esigenza di rinuncia. Parole come sacrificio, rinnegamento, sofferenza paiono sconvenienti. Di qui la ricerca di linguaggi e proposte più «appropriate», più consone alla «sensibilità odierna» ma che rischiano di alterare gravemente la radicalità cristiana.
Si pensi, ancora, alla tentazione del compromesso con le logiche del mondo, il quale, stando a una famosa e quanto mai attuale pagina di sant’ILARIO DI POITIERS: «non ferisce più la schiena, ma accarezza il ventre; non confisca i beni, ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci; non colpisce i fianchi, ma prende possesso del cuore; non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con il denaro» (IV secolo, Liber contra Constantium, 5). Certo, in siffatto regime la croce non è contestata (apparentemente); è però svigorita dalla sua forza inquietante e salvifica. Su questo la comunità dei credenti deve vigilare.
Scriveva il grande teologo medioevale san BERNARDO: «L’amarezza della Chiesa è amara quando la Chiesa è perseguitata, è più amara quando la Chiesa è divisa, ma è amarissima quando la Chiesa se ne sta in pace». In una pace fasulla naturalmente, priva di libertà. Pensiamo ancora alla malsana associazione della croce al dolorismo o, peggio ancora, alla rassegnazione passiva di fronte agli eventi dolorosi e ingiusti della storia. La croce è la narrazione della storia dell’amore di Dio; un amore che non subisce la sofferenza ma che la sceglie volontariamente. «La perfezione del Dio cristiano si manifesta nelle imperfezioni, che per amore nostro egli assume: la finitudine del patire, la lacerazione del morire, la debolezza della povertà, la fatica e l’oscurità del domani, sono altrettanti luoghi dove egli dimostra il suo amore perfetto fino alla consumazione totale del dono» (B. FORTE). Per comprendere questa rivelazione dobbiamo compiere un’ascensione, dobbiamo salire sul monte e ascoltare la voce del Padre. Sul Tàbor una porta aperta ci ha dischiuso il mistero di Dio e il suo disegno di salvezza per tutti gli uomini; ci è data la luce per vedere nell’uomo sfigurato, nell’uomo dei dolori, proprio lui, il trasfigurato, colui il cui volto splendeva come il sole; ci è mostrata la bellezza sconfinata del suo amore per noi che continua a mostrarsi in ogni celebrazione liturgica. «La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra. Il memoriale del sacrificio redentore porta in se stesso i tratti di quella bellezza di Gesù di cui Pietro, Giacomo e Giovanni ci hanno dato testimonianza, quando il Maestro, in cammino verso Gerusalemme, volle trasfigurarsi davanti a loro (cfr. Mc 9,2). La bellezza, pertanto, non è un fattore decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria» (BENEDETTO XVI, Esortazione apostolica Sacramentum caritatis, n. 35).