Se s’indice un meeting bipartisan in una location prestigiosa per discutere di best practices e di outsourcing, in realtà di solito poi ci si ritrova a fare public relations in una banale convention scattandosi selfie nel backstage come teenager, perdendosi nel gossip al coffe break e concludere che è stato un flop.
Ma dirlo in italiano sembra brutto? Bastano tre righe per ricordarci quanto l’uso indiscriminato di centinaia di termini inglesi abbia messo in minoranza la nostra lingua con risultati che spesso sconfinano nel ridicolo. Per difendere e valorizzare la quarta lingua più studiata al mondo – ebbene sì, è la nostra – è stata lanciata sulla piattaforma Change.org (preveniamo l’obiezione: no, non esiste “Cambia.it” in italiano) la petizione #dilloinitaliano promossa da Annamaria Testa sulle pagine di “Internazionale” e di “Nuovo e utile”. Nel giro di una settimana la campagna, che chiede all’Accademia della Crusca di farsi portavoce di questa istanza, ha già raccolto più di 55mila appassionate e motivatissime firme da tutto il mondo. Adesioni che crescono esponenzialmente ogni giorno e uniscono studenti, professionisti, pensionati, manager e madri di famiglia. Cittadini che chiedono di poter capire davvero cosa viene detto nei telegiornali, scritto sui giornali o reclamizzato dai politici.
L’intento è esplicito e coerente: non si tratta di un tentativo di abrogare parole entrate nell’uso comune – pensiamo a tram o computer – di cui non esiste un corrispondente italiano altrettanto esaustivo. Si finirebbe per cadere nell’opposto grottesco di cui già si è data prova nel secolo scorso quando, per un malinteso senso di “purezza della lingua”, si cercò un’artificiosa bonifica linguistica tale per cui alla mescita si poteva tuttalpiù ordinare una bevanda arlecchino. La considerazione alla base di #dilloinitaliano è invece la ferma convinzione che la lingua italiana sia un valore e un potente strumento di promozione del nostro Paese. Insomma, l’italiano come elemento distintivo e marchio forte, bene comune e risorsa pregiata che viene troppe volte trascurata o ignorata in virtù della diffusa credenza per cui infarcire un discorso di anglicismi è segno di internazionalizzazione e di modernità, nella falsa convinzione di aumentarne autorevolezza ed efficacia.
“Molti (spesso oscuri) termini inglesi che oggi inutilmente ricorrono nei discorsi della politica e nei messaggi dell’amministrazione pubblica, negli articoli e nei servizi giornalistici, nella comunicazione delle imprese, hanno efficaci corrispondenti italiani” – ricorda Annamaria Testa – “Perché non scegliere quelli? Perché, per esempio, dire ‘form’ quando si può dire modulo, ‘jobs act’ quando si può dire legge sul lavoro, ‘market share’ quando si può dire quota di mercato? Perché dire ‘fashion’ invece di moda, e ‘show’ invece di spettacolo?”
Già, perché? Da quando è meno terribile andare in default piuttosto che finire in bancarotta? Poter contare su un endorsement garantisce maggiori possibilità di successo confronto a un più convenzionale seppur incondizionato appoggio? Una escalation del conflitto è più preoccupante di un inasprimento? E se mi viene data una deadline, la rispetterò con più attenzione rispetto a un’ordinaria scadenza?
L’evoluzione di una lingua è ciò che la mantiene viva, ragion per cui abdicare per inerzia alla sostituzione di termini perfettamente idonei a qualificare e definire una cosa, un’azione, un concetto, finirebbe fatalmente (e irreversibilmente) per impoverire la nostra cultura.
La sciatteria linguistica è, però, purtroppo abitudine diffusa. Ricordo un caro amico che giustificò la sua assenza a un convegno in cui avrebbe dovuto essere relatore dicendo che era un evento troppo “cheap”. È probabile che ammettere semplicemente di aver dato la sua disponibilità a partecipare a un simposio piuttosto mediocre sarebbe stato mortificante per il suo ego. Sosteniamo #dilloinitaliano, perché in fondo, conoscendo come vanno le cose nel Paese di “Verybello”, resta il fondato dubbio che, al termine della mobilitazione, ci possa essere qualcuno che la proporrà in un workshop come una digital case history di successo.
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