Qual è la notizia? La domanda ci viene rivolta dai colleghi giornalisti ogni volta che si propone un discorso, un tema di convegno, un approfondimento. Già, dov’è la notizia? A volte dovremmo rispondere: questo è un problema tuo, non mio. Non vedi la notizia perché manca l’anomalia, lo scontro, il lato “cattivo”? Ma guarda bene, c’è un problema serio su cui ragionare!
Intendiamoci: i colleghi giornalisti hanno ragione quando pensano, in base a esperienza, che è difficile “raccontare” ragionamenti molto complessi. Il giornalismo non è il luogo della riflessione astratta. Quindi di cosa ci lamentiamo?
Il problema è un altro: forse il giornalismo non è più nemmeno il luogo della notizia. Perché la notizia oggi viaggia con le proprie gambe, arriva a destinazione prima che il giornalista l’abbia messa nero su bianco, non trova alcuna protezione né fisica né legale. Se anche è stato un giornalista a produrla diventerà preda del “copia e incolla” di chiunque. E sempre più spesso ci accorgiamo che la fonte primaria di una notizia non è un giornalista, ma un testimone oculare dotato di smartphone, o peggio qualcuno che pur non testimone crede di sapere come si sono svolti i fatti.
Estremizzando: il giornalista che spera di vivere di notizie è morto. E in effetti la professione respira a fatica, se è vero che ormai è tenuta in vita da migliaia di precari sottopagati e sfruttati.
Esiste un’alternativa? Forse sì. Escludiamo subito che sia quella di inventare le notizie. L’invenzione creativa è una splendida pratica, da lasciare a artisti e autori, che deve restare estranea alla professione.
L’alternativa per i giornalisti è produrre servizi basati su informazioni reali che siano utili alla propria comunità di riferimento. Quindi, i “problemi seri su cui ragionare” devono attirare la sua attenzione, perché spesso, dopo lungo lavoro, possono diventare informazione di servizio.
Cerchiamo di vedere nel dettaglio cosa possa significare “produrre servizi informativi utili”. Per prima cosa occorre cogliere tutte le potenzialità di quello che si produce, in modo da renderlo disponibile su tutte le piattaforme utili. Se è un servizio solo per i giovani saranno importanti i social network, se è solo per gli anziani saranno necessari mezzi più tradizionali; ma in linea di massima dovremo inventare qualcosa di realmente crossmediale, cioè facilmente trasferibile su media diversi. Qualcosa non “di massa”, ma specifico. E concreto il più possibile.
Si possono fare esempi. La vita in città, nel quartiere o in altre aggregazioni è piena di momenti critici, servizi in evoluzione o non funzionanti, attività poco note, vere e proprie emergenze, occasioni di mobilitazione intorno a temi più o meno rilevanti. È una miriade di occasioni nelle quali, intorno alla notizia nuda e cruda, si possono organizzare servizi sotto forma di aggiornamenti, adesioni, pagamenti, prenotazioni; ma anche attività più sofisticate come ricavare andamenti, scoprire tendenze, o perfino ricavare veri e propri scoop dall’esame analitico dei dati disponibili.
La nostra cultura giornalistica normalmente tende a sottovalutare queste potenzialità. Le consideriamo attività tecniche, organizzative, di marketing; adatte a ingegneri, informatici o amministratori pubblici. In realtà non ci rendiamo conto che nel mondo industrializzato e informatizzato, dove la notizia non ha più da sola un valore economico rilevante, queste iniziative hanno valore crescente. Forse ancora non in equilibrio, ma crescente. E soprattutto non cogliamo quanto la cultura giornalistica, la capacità di gettare lo sguardo sull’oggi e di comunicarlo in modo comprensibile, sia preziosa e indispensabile per far funzionare questi servizi, purché ci si metta nell’ottica di collaborare con le vere competenze tecniche necessarie ad avviarli e a farli funzionare.
Certamente il cambiamento di prospettiva non riguarda soltanto i giornalisti, dovranno essere gli editori a comprendere il nuovo “business” e ad adattarvisi. Se poi concepiamo la stessa attività editoriale più come servizio alla comunità che come impresa, il cambiamento dovrebbe essere più facile. In altri casi potrebbero essere gli stessi giornalisti ad avviare, magari in cooperativa, una “start up” di servizi informativi alla comunità.
Essenziale per tutto questo mi pare sia non concepire il giornalismo come un lavoro di tavolino, ma appassionarsi alla realtà, ai suoi problemi, ai suoi protagonisti e avere molta voglia di aiutare il prossimo. Perché è evidente che, se non conosco bene coloro con i quali vengo in contatto, se non organizzo nel mio piccolo la raccolta delle informazioni su di loro e i loro bisogni – imitando i grandi soggetti del web, che vivono profilando i loro utenti -, ben difficilmente potrò offrire un servizio utile.
Allora, al collega che mi chiede “dov’è la notizia?” posso rispondere “a questo pensaci tu”. Io suggerisco un problema, tu controlla se dietro c’è un interesse pubblico e prova a escogitare il modo di dargli una risposta, per il bene comune.