Un’operazione apparentemente banale come la chiusura di alcuni conti bancari negli Stati Uniti può mettere a rischio il futuro di un intero Paese? Sì, se il Paese è la Somalia e a prendere la decisione è la Merchant Bank of California, cioè l’istituto attraverso cui passa – secondo un dossier diffuso dall’organizzazione non governativa Oxfam – tra il 60 e l’80% del denaro che gli emigrati negli Usa inviano a parenti e amici rimasti in patria. L’iniziativa della banca californiana – presa a febbraio – non è del resto un episodio isolato: l’importante istituto di credito britannico Barclays ha fatto la stessa scelta lo scorso anno e l’australiana Westpac si appresta ad imitarla. I motivi sono essenzialmente due: da un lato, il timore che i soldi finiscano in mano a milizie armate o a gruppi fondamentalisti come al-Shabaab; dall’altro, gli alti costi che derivano alle banche dalla necessità di adeguarsi alle normative antiriciclaggio anche in questo settore e che rendono economicamente poco conveniente per gli istituti di credito questo genere di operazioni.
Unico reddito. A sottolineare la gravità della situazione è anche il rapporto già citato, diffuso da Oxfam insieme ad altre organizzazioni della società civile e intitolato significativamente “Hanging by a thread”, appesi a un filo. In effetti, le rimesse, valutate in 1 miliardo e 300 milioni di dollari annui, costituiscono tra il 25% e il 45% del prodotto interno lordo somalo, a seconda delle stime. “Per molti somali le rimesse sono la principale fonte di reddito, ci sono famiglie che dipendono quasi completamente da esse: quindi la sospensione degli invii può avere un impatto devastante su molti bilanci domestici”, conferma Marcelo Garcia Dalla Costa, responsabile programmi di Intersos, organizzazione umanitaria attiva da oltre 20 anni in Somalia. Il denaro che arriva dall’estero grazie a parenti e amici, infatti, non è una semplice integrazione di altri guadagni: “Le rimesse si usano per i bisogni quotidiani e solo a chi ha già un minimo reddito con cui soddisfare queste necessità servono per mandare a scuola i figli o dar loro un’istruzione superiore”, continua Dalla Costa. Ma anche le speranze di una ricostruzione autonoma del Paese dipendono principalmente dalla diaspora: da qui arrivano l’80% dei fondi che permettono l’apertura di nuove attività economiche. Che le rimesse siano praticamente insostituibili in una società come quella della Somalia è confermato da un altro dato: gli aiuti economici destinati al paese nel 2013 (anno a cui risalgono le cifre più recenti) sono stati pari a circa 715 milioni di dollari, poco meno della metà di quanto inviato in patria dai somali della diaspora. Inoltre, spiega ancora Dalla Costa, “rispetto agli aiuti internazionali le rimesse vanno direttamente a incidere sull’economia della singola famiglia e soprattutto, in molte regioni, la cifra è superiore a quella stanziata per i progetti di cooperazione allo sviluppo o di risposta all’emergenza”.
Soluzione difficile. Il quadro tracciato dalle organizzazioni umanitarie (e anticipato negli anni passati anche da studi come quelli dell’accademico ghanese Adams Bodomo) basta a capire perché contro la decisione della Merchants Bank of Califorina abbia preso posizione in prima persona il ministro degli Esteri somalo,Abdusalam Omer. Se questo e altri istituti di credito non torneranno sui loro passi, ha sostenuto l’uomo politico “un settore perfettamente legale e funzionante, fondamentale per la vita dei somali, si trasformerà presto in un sistema sotterraneo e sregolato, ad alto rischio di abusi”. Una soluzione rapida del problema, però, appare difficile anche per il gran numero di soggetti coinvolti. “Ad oggi la comunità internazionale o le Ong possono fare poco per intervenire in queste questioni anche perché le rimesse non passano solo attraverso le banche”, spiega ancora Dalla Costa. E chiarisce: “Tutto il Centro-Sud della Somalia di fatto deve usare altri canali e questi sono i più svariati, dai sistemi di ‘money transfer’ ai versamenti effettuati in banche di Nairobi, in Kenya”. “Un sostegno diretto della comunità internazionale su questo tema – è la conclusione del cooperante italiano – è difficile, ciò che si può fare è sensibilizzare e cercare di portare il problema sui tavoli in cui si discute di Somalia”.