La IV domenica di Quaresima – la cosiddetta domenica del Lætare – è un invito alla gioia e all’esultanza. La gioia nasce dall’esperienza dell’agire misericordioso di Dio, dal suo disegno salvifico e dal suo amore senza misura svelato e donato nel suo Figlio Unigenito. Il simbolo che vogliamo sviluppare è quello del “serpente innalzato”: «come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,14-15). Qui Giovanni paragona il serpente di bronzo al Figlio dell’uomo che è il Messia atteso, ma con una nota particolare: questo Messia sarà innalzato sulla croce, come il serpente di bronzo nel deserto fu innalzato sull’asta a guarigione del popolo. Nel Cristo crocifisso il Padre ha manifestato il suo amore per tutta l’umanità (Cfr. Gv 3,16). Ed è su questo amore smisurato che vogliamo porre la nostra attenzione: l’amore di Dio (il divino Amante), l’oggetto dell’amore di Dio (il mondo), coloro che credendo a questo amore hanno la vita stessa di Dio.
LA SORGENTE DELL’AMORE. A Nicodèmo, l’ammiratore notturno, il simpatizzante che non ha il coraggio di diventare discepolo, Gesù fa una grande rivelazione: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16). Notiamo i verbi: Dio «ha tanto amato … da dare». Sono verbi al passato; questo non vuol dire che Dio oggi non ama più, non dona più! Dio è amore, continua ad amare, ma c’è un evento storico preciso, puntuale, databile che ha conosciuto una manifestazione del suo amore come mai si era vista prima e mai si sarebbe vista dopo. Questo fatto storico è Gesù di Nàzareth! La misura smisurata del suo amore è il dono del suo Figlio Unigenito. Qui comprendiamo una qualità dell’amore divino: l’agápe, cioè un amore che dà semplicemente per la gioia di dare, senza attendere. È il dare gratuito, oblativo e non interessato. Mentre per noi l’amore è éros, amore che afferra, consuma e mercifica, l’amore di Dio è agápe, amore che non prende, non strumentalizza, ma offre. Ma c’è un altro aspetto che occorre evidenziare: per Dio amare significa donare tutto se stesso. Egli ha donato tutto se stesso nel suo Figlio. Per dare tutto se stessi bisogna amare molto. Noi possiamo anche riempire una persona di cose amando poco, ma non possiamo dare tutto noi stessi amando poco: bisogna amare molto, totalmente, senza misura o calcolo, all’infinito. Infine, amare, per Dio, non è dare in prestito. L’amore è un qualcosa d’irrevocabile, definitivo, fedele, unilaterale, per sempre. Davanti a queste parole di Gesù riconosciamo certamente la povertà del nostro amore, la nostra incapacità ad amare; non dobbiamo però scoraggiarci! La luce della rivelazione dell’amore di Dio non umilia, ma illumina la strada che possiamo percorrere per giungere a quella pienezza e totalità, e potremo farlo seguendo Gesù che sulla croce manifesta la pienezza di quell’amore dato fino alla fine, fino al compimento dell’amore (Cfr. Gv 13,1b). L’OGGETTO DELL’AMORE. 2 La direzione verso la quale è diretto l’amore di Dio è il mondo. Il termine «mondo» (kósmos) in Giovanni non ha sempre una connotazione positiva. In questo caso allude all’umanità. Essa è destinataria della missione di Gesù, il Figlio di Dio (cfr. Gv 3,17), e questa missione consiste nel liberarla dal peccato (cfr. Gv 1,2). Gesù, quindi, non viene né per giudicare né per condannare, ma per salvare l’umanità (cfr. Gv 4,42; 12,47) e darle vita (cfr. Gv 6,33). Di questo «mondo», egli è la «luce» (cfr. Gv 8,12). Ma come si concretizza l’amore di Dio per il mondo? In un duplice modo: creante e sofferente. L’amore anzitutto crea. Cosa crea? Quello che non trova! Dio non trova il mondo amabile, ma con il suo amore lo rende amabile. È l’amore che ha questa potenza trasformante!
MARTIN LUTERO scriveva che l’amore divino «ama i peccatori, i malvagi e gli stolti al punto da renderli santi, buoni e giusti». Ma c’è un prezzo, anche per Dio. Questo prezzo è la croce, la sofferenza dell’amore.
ORIGÈNE, il grande padre della Chiesa antica, ha scritto che in Dio «il dolore è amore (cáritas est pássio)». Il Misericordioso porta il mondo e ne sopporta il peso. Soffre il Padre, che nell’offerta del Figlio (cfr. Rm 8,32) patisce il dolore della redenzione; soffre il Figlio, che fa proprio il nostro peccato. Chi giunge a questa fede, «non vedrà più Dio come l’oscuro dirimpettaio verso il quale sale il grido del dolore, ma l’umano fratello (in Gesù) che grida insieme a lui, lo Spirito che grida in lui e che griderà anche quando lui sarà reso muto» (J. MOLTMANN, Il Dio crocifisso. La croce di Cristo fondamento e critica della teologia cristiana, Queriniana, Brescia 19823 ). Si racconta che una volta*
CATERINA DA SIENA gridasse a Dio: «Dov’eri, mio Signore, quando il mio cuore era nell’oscurità e nella tentazione?». La risposta fu questa: «Nel tuo cuore, mia amata figliola». Ecco la consolazione che nasce dall’esperienza dell’amore creante e sofferente di Dio.
L’AMORE CHE SUSCITA LA VITA. La via che apre all’esperienza dell’amore di Dio in Cristo è la «fede». Più volte nel testo giovanneo ritorna l’espressione «chiunque crede in lui» (Gv 3,15.16.18). Credere «in lui», stando al nostro contesto, significa credere nel Figlio dell’uomo, paragonato al serpente di bronzo innalzato da Mosè nel deserto. Gesù è l’innalzato, cioè il Crocifisso glorioso. Che sia paragonato al serpente indica due cose: nel Crocifisso noi possiamo vedere il male che il serpente ci ha procurato, ma anche l’amore che Dio ci vuole. Gesù, sulla croce, è perciò l’attestazione dell’amore di Dio che giunge a farsi maledizione (cfr. Gal 3,13; 2Cor 5,21) per donarci l’immenso amore del Padre. L’espressione giovannea: «Chiunque crede in lui» (Gv 3,15), in parallelo al serpente innalzato, significa che il Figlio dell’uomo crocifisso è il punto di riferimento dove deve convergere lo sguardo di tutti. Credere equivale perciò a guardare, a tener fisso, in modo perseverante, lo sguardo su di lui. Il Crocifisso è il luogo di convergenza ove gli uomini possono attingere la «vita eterna», la vita nella sua pienezza. Se la fede apre all’esperienza dell’amore è un fatto però che l’uomo può anche rifiutarlo. Davanti al Figlio dell’uomo innalzato ognuno deve compiere la sua scelta. Un ultimo aspetto: sulla croce l’amore che Gesù ha dimostrato si presenta sconfitto. Di fatto, però, è vittorioso. Il segno? La risurrezione! Pietro, nel giorno di Pentecoste, dirà: «Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» (At 2,24). I termini «serpente» e «Messia» in ebraico hanno lo stesso valore numerico. La somma delle loro lettere è 358. «Messia» però ha una lettera in più, la yod, la prima del Nome impronunciabile di Dio, del sacro tetragramma, «JHWH».
Cosa significa? Che solo nel Cristo innalzato sulla croce, l’umanità può contemplare la rivelazione suprema di «JHWH». Sulla croce «JHWH» si è manifestato in una modalità senza precedenti. Per ben tre volte, Giovanni parla nel suo Vangelo dell’innalzamento del Figlio dell’uomo (cfr. Gv 3,14; 8,28; 12,32). Il parallelo con i tre annunci della passione, che troviamo nei Sinottici, è evidente. In tutte e tre le volte abbiamo una promessa; in Gv 3,14 l’innalzamento porta al dono della vita eterna; in Gv 8,28 alla conoscenza del «Io Sono» (il Nome di Dio «JHWH»); in Gv 12,32 di essere tutti attratti a lui. Il verbo «innalzare» poi ha un doppio senso: si può intendere sia un innalzamento fisico sia una esaltazione/glorificazione (in Is 53,13 i due termini sono accostati). È noto come Giovanni abbia letto la passione di Gesù (innalzamento fisico, di cui la croce è l’apice) come cammino di gloria. Ciò che emerge dal racconto è la sovrana libertà di Gesù; è lui a condurre gli avvenimenti dall’arresto fino agli ultimi istanti della sua vita. Nei suoi gesti, come nelle sue parole, nella sua ferma fiducia e nel suo abbandono, Gesù rivela agli uomini la gloria di Dio, cioè il suo amore fedele.
Questa gloria, che s’irradia dalla croce, continua a splendere (cfr. Gv 17,24), ha inoltre il suo segno luminoso nel costato aperto (cfr. Gv 20,20), da cui fluisce incessantemente il sangue della vita donata, dell’alleanza compiuta e l’acqua vivificante e risanante dello Spirito (cfr. Gv 19,34). Questa gloria comunicata introduce l’umanità nella comunione trinitaria (cfr. Gv 17,3), realizzando così l’unità dei discepoli di tutti i tempi con Gesù e con il Padre. La morte di Gesù supera tutte le categorie umane. In essa si verifica quel che non si è mai verificato, né 3 mai si verificherà in un’altra morte umana. Nella morte di Gesù ha luogo ciò che la Scrittura chiama il “giudizio sul peccato” in quanto il Figlio di Dio viene caricato della responsabilità di tutta la colpa del mondo. «Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!”» (Gv 1,29). Paolo proclama con una chiarezza inesorabile: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21). Lo ha fatto peccato per noi! Paolo spinge qui l’espressione fino al limite in una sorta di personalizzazione.
Gesù non è soltanto reso portatore di peccato, ma addirittura s’identifica con il “peccato”.
Non prende solo sopra di sé la maledizione dovuta alla violazione dell’alleanza, ma s’identifica in un certo qual modo con tale maledizione. Egli che non aveva avuto esperienza, conoscenza alcuna del peccato, ne sperimenta tutta la densità e la forza come qualcosa che lo riguarda personalmente. Gesù non ha risposto solo esteriormente per il peccato del mondo, bensì «l’ora della croce ha richiesto a lui un’accettazione interiore della realtà adivina e anti-divina. Una identificazione con quella tenebra lontana da Dio in cui il peccatore precipita col suo no» (H.-U. VON BALTHASSAR, L’evento Cristo, in Mysterium Salutis, VI, Queriniana, Brescia 1971).
DIO HA TANTO AMATO IL MONDO. «La volontà servizievole e la richiesta d’amore avanzata da Gesù soprattutto la sua richiesta dell’amore dei nemici, e in special modo il suo amore per i peccatori, unitamente alla sua offerta di salvezza fin nell’ultima ora, inducono in maniera convergente a far pensare che Gesù abbia concepito la propria morte: amando, intercedendo, benedicendo, salvando» (H. SCHÜRMANN, Gesù di fronte alla propria morte, Morcelliana, Brescia 1983, p. 50). Il Figlio dell’uomo è sceso dal cielo, perché Dio Padre ha regalato il Figlio per amore del mondo: il dono totale di sé è lo stile di Dio. Il dono del Figlio però non è orientato alla morte, bensì alla vita e alla vita eterna, piena, bella, realizzata, completa e soddisfacente. Secondo lo stile ripetitivo e insistente di Giovanni, lo stesso messaggio viene proposto con un’altra formula: l’obiettivo non è condannare il mondo, ma salvare il mondo. Notiamo però l’importanza di una forma diversa: «perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». Tale sfumatura infatti sottolinea la responsabilità dei destinatari, perché la salvezza non è un fatto automatico, realizzato totalmente dall’intervento di Gesù. Il processo di salvezza è più complesso, profondo e vero: l’offerta chiede accoglienza e risposta. Al mondo, cioè all’umanità oggetto del grande amore divino, è offerta la possibilità di salvarsi: a tutti in genere e a ciascuno in particolare è data questa opportunità. Ma diventa effettiva ed efficace quando una persona l’accoglie con disponibilità a lasciarsi ri-generare. Contemplare colui che è innalzato sulla croce diventa fonte di vita e di salvezza definitiva; è una fede contemplativa che lascerà attirare il proprio sguardo verso il Crocifisso trafitto: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37). Da parte del Signore innalzato sulla croce è in gioco la sua capacità di attirare tutti a sé, realizzando così l’unità degli uomini: «E io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32), da parte del credente si tratta invece di accogliere il dono che viene da colui che è innalzato, e cioè la vita eterna. È la prima volta che questa espressione ricorre in Giovanni, per poi apparire innumerevoli volte nel corso del suo vangelo. Si tratta di una vita che inizia già ora e la cui dimensione più profonda sfugge agli attuali parametri dell’esperienza umana, perché la sua natura ultima è cristologica; questa vita continua anche oltre la morte fisica, perciò si può dire “eterna” nell’accezione di definitività, di appartenenza alla sfera divina. Possiamo dire che, più che un riferimento temporale, ha un riferimento teologico (cfr. 1Gv 2,2.24-25). Stando alla tradizione rabbinica, ciò che ha salvato gli ebrei dai morsi dei serpenti non è stato tanto il serpente di bronzo quanto lo sguardo che ad esso veniva rivolto, con la fede nella Parola di Dio. Dal libro della Sapienza leggiamo: «Per correzione furono turbati per breve tempo, ed ebbero un segno di salvezza a ricordo del precetto della tua legge. Infatti chi si volgeva a guardarlo ero salvato, non per mezzo dell’oggetto che vedeva, ma da te, Salvatore di tutti» (Sap 16,6-7). È urgente allora, più che mai, che i noi cristiani rivolgiamo lo sguardo al Cristo crocifisso. La croce riunisce, riconcilia e unifica; il Crocifisso poi è la «condizione» per accogliere e costruire l’unità. Quanti sono dispersi giungeranno così a ritrovarsi e questo grazie all’impegno d’ognuno di guardare verso la stessa direzione, nell’unica attrazione verso il medesimo Signore crocifisso. La nostra gioia allora nasce dall’esperienza viva e vivificante dell’amore di Dio, di un amore che si è fatto storia (cfr. 2Cr 36,14-16.19-23); di un amore che si è fatto grazia, ovvero puro dono gratuito (cfr. Ef 2,4-10.); di un amore, infine, che ha avuto il suo vertice nell’innalzamento sulla croce del Figlio di Dio (cfr. Gv 3,14-21). «Credere nel Figlio crocifisso significa credere che l’amore è presente nel mondo e che questo amore è più potente di ogni genere di male in cui l’uomo, l’umanità e il mondo sono coinvolti» (GIOVANNI PAOLO II, “Dives in misericordia”).