Libertà di scegliere il nome dei figli? In che senso? Occorre sapere che in Islanda – per conservare cultura e identità nazionali – i nomi sono limitati da una legge del 1914 e da un ferreo registro che definisce circa 1.800 nomi femminili e quasi altrettanti maschili. Quando arriva il bebè, mamma e papà devono pescare in quella lista. Diversamente interviene un apposito Comitato nazionale, che si esprime in merito: se il nome non viene accettato, scatta la multa. Lo sanno bene i genitori della piccola Alex Emma, costretti a versare un’ammenda pari a 9 euro al giorno: il nome “non vale” perché in Islanda Alex non è declinato al femminile. Le scappatoie e l’elasticità levantine non sono previste nei mari vichinghi.
Altre curiosità in materia? A manciate. Per esempio i cognomi in realtà non esistono, perché si utilizza il sistema patronimico, per cui ogni persona ha un nome proprio e un nome di famiglia, derivato da un arricchimento, mediante desinenze, di quello del babbo (raramente quello della mamma). L’elenco telefonico? È, per la precedente ragione, in ordine di nomi, non di cognomi. E se uno straniero si trasferisce in Islanda? Nessun problema, basta cambiare il cognome secondo gli standard isolani, per cui una Esposito diventerebbe Esposidòttir, mentre un Colombo assumerebbe Colomboson.
E poi perché cacciarsela tanto? Gli isolani sono solo 300mila: pochi nomi possono bastare. La scelta – su cui vigila il Mannanafnanefnd, ovvero la Commissione per i nomi islandesi – è sufficientemente varia: si va da Sigrídur a Heioar (risparmiamo qualche accento improponibile), da Gudrún a Eilífr. L’elenco ufficiale comprende fra l’altro, per restare a nomi diffusi: Ásbjörn, Ófeigur, Þangbrandur, Úlfkell, per i maschietti; e Bjarglind, Friðjóna, Valdheiður, per le femminucce. Vietati per legge i vari Giuseppe, Francesco, Marcella, Matteo, Assunta, Ginetto e Lucilla. Non c’è santo che tenga: chi è fuori dalla lista islandese non finisce sui passaporti.