“Sono veramente fiero per la grandezza di Israele. Nel momento della verità ha preso la decisione giusta. Ora dovremo formare un governo forte e stabile. Ho parlato con tutti i leader dei partiti del campo nazionale (di destra, ndr.) e mi sono appellato per formare un governo senza indugio”: parole e musica di Benyamin (Bibi) Netanyahu, che ieri si è aggiudicato la conferma alla carica di Primo Ministro, per la quarta volta. Il “Likud”, il suo partito, ha infatti vinto le elezioni del 17 marzo, ottenendo 29 dei 120 seggi, che potrebbero salire a 30 con la conta dei voti dei soldati, mentre i rivali diretti di “Campo Sionista” (Isaac Herzog e Tzipi Livni), favoriti alla vigilia, si sono fermati a 24. Una vittoria inattesa, anche alla luce dei sondaggi delle ultime settimane e degli exit poll della scorsa notte. Significativa è anche l’affermazione della “Lista araba unita”, terza, con 14 seggi, che tuttavia farà parte dell’opposizione. Seguono il centrista Yair Lapid di “C’è futuro” con 11 seggi (in calo rispetto al voto del 2013), il movimento sempre centrista, “Kuluna”, fondato lo scorso novembre da Moshe Khalon, con 10 seggi, la destra nazionalista dei coloni di “Focolare Ebraico” di Naftali Bennet con 8. Sette deputati a testa vanno ai due partiti religiosi: la destra ultraortodossa dello “Shas” (ne aveva 11) e lo “United Torah Judaism”, che conferma quelli che aveva. Dalle urne esce duramente sconfitta la destra di “Yisrael Beitenu”, del ministro degli Esteri, il “falco” Avigdor Lieberman, che ha ottenuto solo 6 seggi contro i 13 della precedente Knesset. La sinistra del “Meretz” arretra a 4 seggi (2 in meno). Cifre alla mano, Bibi adesso potrebbe contare su una maggioranza di 67/68 seggi, e dunque formare un governo omogeneo di destra con il sostegno di partiti nazionalisti e confessionali. Preoccupazione per l’esito del voto è stata subito espressa dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) per la quale, scegliendo Netanyahu, la maggioranza degli israeliani ha scelto “la via dell’occupazione e della colonizzazione e non del negoziato e della collaborazione”. Chiaro il riferimento alle ultime dichiarazioni del premier israeliano in campagna elettorale che, in caso di vittoria, aveva escluso la nascita di uno Stato palestinese. Parole, peraltro, rilasciate dall’insediamento di Har Homa, tra i più contestati dai palestinesi e dalla comunità internazionale. Domani, quando verranno resi noti i risultati definitivi, il presidente israeliano Reuven Rivlin affiderà a Netanyahu l’incarico di formare il nuovo governo, il quarto della serie.
Un voto di pancia? “Netanyahu ha vinto perché ha saputo parlare più alla pancia che alla mente degli Israeliani, ha intercettato le loro paure relative alla sicurezza e alla stabilità”: è questo, per Beshara Ebeid, ricercatore della fondazione Oasis, “palestinese di Israele” proveniente dalla zona di Nazareth (Galilea), il motivo principale della vittoria del Likud, ieri in Israele. Ora si apre la fase della composizione del nuovo Governo che davanti avrà alcuni temi spinosi da affrontare. “Innanzitutto la questione palestinese, che pure era stata accantonata in campagna elettorale da un po’ tutte le forze politiche. Se dovesse passare la legge sullo ‘Stato della Nazione ebraica’ verrebbe meno il diritto al ritorno dei palestinesi che vivono fuori Israele dopo il 1948 e il 1967 e ciò darebbe un ulteriore duro colpo alle speranze di riaprire un negoziato con i palestinesi”. Non meno importanti, inoltre, sono “le questioni legate alla sanità, al carovita, agli alloggi, ma sul conflitto israelo-palestinese Netanyahu è chiamato ad un chiaro realismo politico. Non può ignorare infatti quanto sta avvenendo anche nello scacchiere mediorientale e le pressioni della Comunità internazionale coinvolta anche nelle vicende siriane e irachene e nella lotta contro lo Stato Islamico. Dichiarazioni come quelle ‘non ci sarà mai uno Stato palestinese’ non sono affatto realistiche. Un ulteriore irrigidimento di queste posizioni non farà altro che aumentare l’isolamento internazionale di Israele che resta per molte nazioni della regione un nemico”. Dalle urne, e questo per Ebeid è un “dato positivo”, esce rafforzata la componente arabo-israeliana che nel Paese è il 20% della popolazione. “Si tratta – dice il ricercatore – di un evento significativo che dimostra la capacità di accordo tra le diverse anime arabe che si sono presentate unite per la prima volta nella storia politica di Israele. Un sogno che diventa realtà ma che potrebbe dissolversi – ed è un rischio reale da non sottovalutare – nelle politiche parlamentari a causa delle diverse opinioni al loro interno. Se ciò dovesse accadere, tutto il patrimonio di consenso e fiducia della parte araba di Israele, che comprende anche la maggior parte degli elettori di fede cristiana, andrebbe disperso ancora una volta e sarebbe grave”.