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L’immagine che vogliamo evidenziare in questa V domenica di Quaresima è quella dell’«ora».
Alle nozze di Cana Gesù menziona per la prima volta la «sua ora», avvertendo però la madre che non è ancora giunta (cfr. Gv 2,3-4).
Ciò che si compirà in quell’«ora» racchiude il senso profondo della sua identità e della sua missione tra gli uomini. C’è un aspetto da non dimenticare: l’«ora», che noi sappiamo essere l’ora della croce e della risurrezione, non dipende dall’arbitrio umano; è il tempo del Padre, un tempo teologico che Gesù discerne, accoglie e fa suo orientandovi tutta la sua esistenza. Il contenuto di quest’«ora» è la manifestazione della gloria di Gesù, il Figlio, e di Dio (Gv 17,1). Una gloria non da intendere alla maniera umana. La gloria di cui parla Gesù è la rivelazione dell’amore fedele di Dio. Certo, la via è quella della morte, ma questa viene superata per il frutto eccellente che ne consegue: lo Spirito (Gv 19,30).
Gesù ha camminato decisamente verso il compimento della sua «ora», ma ha pure preannunciato ai suoi discepoli che anche per loro giungerà un’«ora» simile alla sua: «Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio» (Gv 16,2). In quest’«ora» anch’essi conosceranno l’odio del mondo, la persecuzione e la morte. Però glorificheranno il Padre (Gv 21,19) e dal loro sacrificio nascerà la nuova creazione. Il termine «ora», in Giovanni ricorre 26 volte, ed ha un senso qualitativo. Tutta la narrazione giovannea tende a questo «fine» e di conseguenza alla manifestazione della «gloria». È interessante notare come i due termini «ora» e «gloria» sono uniti in punti cruciali del racconto evangelico: all’inizio (Gv 2,4) e alla fine (Gv 12,23) del ministero pubblico di Gesù (libro dei segni); all’inizio (Gv 13,1) e alla fine (Gv 17,1) dei discorsi di addio (libro della gloria). Il punto ove si congiungono è quello della morte di Gesù (Gv 19,30). Ma, di fronte al compimento dell’«ora» di Gesù, Giovanni vede e preannuncia l’indurimento d’Israele (Gv 12,37-50). Nel Crocifisso, Israele non ha riconosciuto il Messia mandato da Dio; eppure, sulla croce, Gesù è il nuovo altare, il nuovo agnello, il nuovo tempio ove ogni uomo può adorare Dio in spirito e verità (cfr. Gv 4,23-24). Il disegno della salvezza non è venuto meno per Israele, che con la Chiesa attende una nuova «ora», quella definitiva, che Luca in Atti vede come l’avvento della nuova consolazione di Dio grazie all’invio ultimo di Gesù: «Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e così possano giungere i tempi della consolazione da parte del Signore ed egli mandi colui che vi aveva destinato come Cristo, cioè Gesù» (At 3,30). «È VENUTA L’ORA».
Siamo ormai in prossimità della Pasqua. Tutto deve compiersi, anche l’arrivo dei pagani. Giovanni nota infatti che tra quanti erano saliti a Gerusalemme per la festa c’erano anche alcuni Greci (cfr. Gv 12,20). Costoro erano dei simpatizzanti del giudaismo, i proseliti di cui parlerà Luca negli Atti. Questi si rivolgono a Filippo e chiedono di vedere Gesù (cfr. Gv 12,21). Quando Filippo, con Andrea, vanno da Gesù, questi ri- 2 sponde apparentemente in modo strano: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato» (Gv 12,23). Gesù, dunque, rimanda alla croce, come luogo manifestativo della gloria di Dio. È lì che i pagani, i discepoli e tutti gli uomini, potranno vedere il Signore. L’evento verso il quale corre tutto il Mysterium Salutis perciò è la croce, «scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1,23-24). L’«ora» è ormai giunta. L’«ora» segna la glorificazione di Gesù ed è presentata anche come giudizio sul mondo (ostile a Dio) e sul suo «capo» (Satana). Sulla croce, dove sembra che il male giunga al suo apice, in realtà si consuma la sua distruzione per opera di Cristo, vero re e signore del mondo.
Infine, l’«ora» è quella della morte di Gesù, una morte che non è un precipitare nel nulla ma un passaggio al Padre. «Se mai un uomo è stato davvero dentro l’inferno, non lo so, però so che uno stava al centro dell’inferno, era Gesù in croce!» (H.-U. VON BALTHASSAR, L’evento Cristo, in Mysterium Salutis, VI, Queriniana, Brescia 1971). Questa sua «ora» di solitudine incomprensibile, Gesù la manifesta con un grido: «Alle tre, Gesù gridò a gran voce: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”» (Mc 15,34). Il peccato non è semplicemente un inconveniente fastidioso nell’evoluzione del mondo o un qualsiasi incidente nella storia di una vita, di una persona, ma nella sua espressione ultima è qualcosa di talmente orribile, da esigere l’impegno stesso di Dio fino alle profondità ultime e non più umanamente immaginabili. Lutero ha un’espressione forte e tragica del mistero della Croce di Cristo. Dice: «Sulla Croce di Cristo si ostendono i posteriora Dei» quasi qualcosa di vergognoso di Dio, Dio che si umilia fino a questo punto per amor nostro! «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21). Tutto questo è accaduto per noi e questo “per noi” indica «una situazione di maledizione assunta per puro amore che cambia radicalmente il senso, viene trasformata dall’interno e invece di produrre effetti negativi, produce effetti positivi» (VANHOYE, Commento alla lettera ai Galati, Roma 1980, p. 101). Nella condivisione estrema, per amore, del Cristo, il peccato è infatti svuotato, e noi in lui, possiamo «diventare giustizia di Dio»; la maledizione è annullata e la «benedizione» e la «promessa dello Spirito» possono ora raggiungere tutte le genti (cfr. Gal 3,14). L’assioma teologico di SANT’IRENEO: «il Verbo di Dio, Gesù Cristo nostro Signore, a causa del suo immenso amore per noi, si è fatto ciò che noi siamo al fine di farci divenire ciò che lui stesso è» (Cfr. IRENEO, Adversus Hæreses, 5, præf.: PG 7) risuona nella patristica greca come un prolungamento esplicativo del paradosso paolino di 2Cor 5,21. Sulla croce si manifesta perciò, nella sua ultima radicalità, l’amore disinteressato di Dio. «La croce è il massimo che Dio può fare nel suo amore prodigo» (W. KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 19852 ). La croce è l’«hic quod maius cogitari nequit» (SANT’ANSELMO). Cioè l’auto definizione non più superabile di Dio. È lì che riconosciamo l’essenza di Dio. Evidentemente s’intende la croce nel senso giovanneo come rivelazione della gloria di Dio. La stessa verità viene espressa da Giovanni Paolo II: «La croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull’uomo e su ciò che l’uomo – specialmente nei momenti difficili e dolorosi – chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell’eterno amore sulle ferite più dolorose dell’esistenza terrena dell’uomo» (Dives in misericordia, n. 8).
LA LEGGE DEL DISCEPOLATO: IL SERVIZIO, «SE IL CHICCO DI GRANO …». Gesù illustra ulteriormente la sua morte mediante una piccola parabola, quella del seme che deve «cadere» nella terra per poter manifestare tutta la sua fecondità. In questo «cadere» Gesù parla della sua morte come di un’auto-donazione. Coloro che vogliono essere suoi discepoli devono essere disposti, come lui, a rinunciare persino alla propria vita per poter vivere questa auto-donazione. Il discepolo non deve perciò tener stretto ciò che ha (la vita) ma donarlo; se egli è disposto a rinunciare a se stesso (a odiare questa vita), avrà la vita eterna: una vita piena, bella, realizzata, completa e soddisfacente. Questa auto-consegna di sé, che pone in secondo piano gli assoluti di questo mondo, farà sì che il discepolo, divenuto servo, sia onorato anche dal Padre. La formulazione sulla necessità di odiare la propria vita in questo mondo esprime solo in modo negativo la legge del seme, che viene invece ora formulata in modo positivo: «Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà» (Gv 12,26). Essere discepoli del Figlio dell’uomo, che muore come il seme, significa entrare in una sequela che diventa servizio libero, generoso, che non calcola il rapporto tra sforzi e risultati. A sottolineare questo tratto di libertà e generosità nel servizio, Giovanni fa ricorso al vocabolario della diakonía, che si contrappone al servizio dello schiavo, solitamente imposto ed estorto. Il discepolo che entra nella logica del servizio, ha compreso che cosa 3 significhi davvero la sequela e la comunione con Gesù, sicché si può dire che là dove è Gesù, là c’è anche il suo servitore. È espressa così efficacemente l’idea di un discepolato che non è un’astratta adesione a delle idee o a dei princìpi, ma una relazione, un vincolo personale, un’esperienza di presenza e comunione che si realizza però nella concretezza del servizio. Il contesto permette di chiarire in che cosa consista il servizio reso a Gesù: è la disponibilità a dare la propria vita, a spendersi per lui senza calcoli, comprendendo che la propria realizzazione non è un’autorealizzazione, ma un accogliere la fecondità della morte del Figlio dell’uomo. Il discepolo partecipa alla passione del suo Signore, sta con lui, se accetta di dare alla propria vita la forma del servizio, reso a Gesù con la fede nell’efficacia della sua morte, e reso ai fratelli – come si preciserà più avanti nel corso dell’ultima Cena – con l’amore fraterno e con il “lavarsi i piedi” gli uni gli altri. Con queste parole Gesù ci rivela cosa sia l’amore e cosa implichi l’amare. È una lezione teologica e antropologica allo stesso tempo. Amare significa donarsi, dare se stessi. Perché? Perché l’amore non è una modalità dell’avere ma dell’essere. La prima modalità può coprire di cose ma non amare, la seconda può amare intensamente anche senza dar nulla sul piano delle cose. Un sorriso, ad esempio, è ben poca cosa sul piano dell’avere, ma sul piano dell’essere può esprimere moltissimo. Amare significa, ancora, fare esodo da noi stessi per camminare verso il «tu». Questo movimento esodale implica l’oblatività e la gratuità.
IL GETHSÈMANI GIOVANNEO.
«Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome» (Gv 12,27s). Questo testo suona molto simile alla preghiera di Gesù nel Gethsèmani quando, invocando il Padre come l’Abbà, chiede che venga allontanato da lui quel “calice”, ma che sia fatta la volontà del Padre (cfr. Mc 14,36). Si può notare che nel turbamento di Gesù, riecheggia qualcosa della sua angoscia nel Gethsèmani, secondo il racconto dei sinottici. L’amore comporta il dono della vita e questo non è indolore.
Ecco perché Giovanni registra un turbamento di Gesù davanti alla sua morte ormai imminente: «Adesso l’anima mia è turbata!» (Gv 12,27). Il verbo qui usato è «essere turbato» ed esprime in greco il movimento agitato del mare in tempesta, quindi tutto lo sconcerto interiore ed emotivo di Gesù. Tuttavia, egli non chiede al Padre la liberazione dalla prova ma la forza per superarla.
Gesù è ben consapevole che la sua morte ha un ruolo importante nel disegno del Padre; essa è la forza che paradossalmente attrae tutti a lui; è il segno della fine del principe di questo mondo e, più in positivo, dell’avvento del Regno di Dio, della nuova creazione. La preghiera di Gesù, poi, diventa un «Padre, glorifica il tuo nome». Si può parlare qui del “Padre nostro” giovanneo, perché è una sorta di riformulazione della prima richiesta della «preghiera del Signore». Gesù chiede pertanto che Dio riveli, nell’Ora che sta per venire, la sua paternità e si faccia conoscere davvero per quello che è: l’Abbà, il Padre.
Gesù aveva parlato di sé come della porta delle pecore, della risurrezione e della vita. Con la sua morte dischiude l’ingresso al mondo di Dio; mai come in questo momento è vera la sua affermazione: «Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo» (Gv 1,51). Gesù è il luogo ove Dio si comunica agli uomini e sulla croce egli porta a compimento la sua libera auto-donazione, rivelando così il volto di un Dio amore. La scena, inoltre, si carica di evocazioni anche di un altro racconto assente nel quarto vangelo, ma ben presente nella memoria della Chiesa protocristiana, e cioè quello della trasfigurazione. Infatti, in quell’occasione interviene la voce dal cielo, e il Padre dichiara Gesù quale Figlio amato; ebbene, qui il Padre risponde positivamente alla richiesta del Figlio: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!» (Gv 12,28). La voce che risuona dal cielo attesta di aver già glorificato il suo Figlio e di volerlo ancora glorificare nella sua passione-morte e risurrezione. Di più, il Padre si riconosce nella scelta del Figlio: dare la vita per il mondo attraverso la croce, e la conferma. «È paradossale che il nome del Padre possa essere glorificato, onorato, santificato attraverso l’accettazione dell’“ora” da parte del Figlio. Eppure proprio qui sta il messaggio: Dio è glorificato quando si accoglie il suo progetto, quando si permette al suo progetto di realizzarsi. Questa è la vera glorificazione di Dio. Non una glorificazione fatta a parole, fatta di canti estatici … ma è l’accoglienza del progetto di Dio e la gioia di vederlo realizzato, anche se comporta la frantumazione del grano. È sintomatico che l’orto del Gethsèmani sia anche traducibile come “l’orto del frantoio”» (I. GARGANO). NOTA LITURGICA. In questa quinta domenica di Quaresima il nostro sguardo si concentra sul punto focale dell’aula liturgica e della celebrazione eucaristica: l’altare, segno di Cristo, l’Unto di Dio, offerente e offerta gradita al Padre, talamo su cui si consumano le nozze dell’Agnello con la sua Sposa. 4 Riscopriamo anche nel semplice segno del pane e del vino, portati in processione, la ricca valenza simbolica che essi esprimono, purtroppo spesso oscurata e sovrapposta da segni inutili e banali. Il pane e il vino, frutto della terra, dono di Dio, e del lavoro umano, racchiudono in sé la dinamica pasquale e quella ecclesiologica. Infatti i chicchi di grano e gli acini d’uva vengono macinati, fermentati, il pane cotto nel fuoco, prima di poter essere cibo e bevanda per la fame e la sete dell’uomo. È un’immagine che ritroviamo spesso negli antichi formulari liturgici, come ad esempio in San Cipriano: «Come molti chicchi raccolti insieme, macinati e impastati fanno un unico pane, così in Cristo, che è il pane del cielo, sappiamo esservi un unico corpo, in cui la moltitudine che formiamo viene riunita in unità» (CIPRIANO DI CARTAGINE, Epistola 63,13).
La colletta alternativa della celebrazione liturgica riassume non solo il tema della liturgia della Parola, ma anche quello delle due settimane che ci stanno davanti e che ci preparano alla festa di Pasqua, ove celebreremo l’evento della passione, morte e risurrezione del Signore Gesù. Davvero nelle prove della vita i credenti partecipano intimamente alla passione di Gesù, conoscendo una misteriosa fecondità redentrice che li stabilisce in una nuova alleanza (cfr. Ger 31,31-34). Gesù, però, non è entrato nella passione come un eroe impassibile (un novello Socrate), ma come un Figlio che ha avvertito in sé tutto il dramma dell’amaro calice, da lui assunto liberamente (Eb 5,7-9). La sua «ora» è giunta, ed egli ne è ben consapevole; è un’«ora» di turbamento e confidenza, di gestazione e nascita di un mondo nuovo (Gv 12,20-33).
slvanacocchini
All' immagine dell' " ORA" in cui ti sei soffermato in questa I V Domenica di Quaresima in modo magistrale, come sempre, in attesa di assaporarla, capirla, meditarla, mi soffermo su altri segni che oggi Papa Francesco ha evidenziato all' Angelus: l’evangelista Giovanni attira la nostra attenzione con un particolare curioso: alcuni “greci”, di religione ebraica, venuti a Gerusalemme per la festa di Pasqua, si rivolgono all’apostolo Filippo e gli dicono: “Vogliamo vedere Gesù”. Nella città santa, dove Gesù si è recato per l’ultima volta, c’è molta gente. Ci sono i piccoli e i semplici, che hanno accolto festosamente il profeta di Nazareth riconoscendo in Lui l’Inviato del Signore». «Ci sono i sommi sacerdoti - ha proseguito il Papa - e i capi del popolo, che lo vogliono eliminare perché lo considerano eretico e pericoloso. Ci sono anche persone, come quei “greci”, che sono curiose di vederlo e saperne di più sulla sua persona e sulle opere da Lui compiute, l’ultima delle quali – la risurrezione di Lazzaro – ha fatto molto scalpore». E «il desiderio di vedere Gesù rappresenta qualcosa di universale che attraversa le epoche e le culture ed è presente nel cuore di tante persone che hanno sentito parlare di Cristo, ma non lo hanno ancora incontrato», ha detto Francesco,, rivolgendosi «a coloro che anche oggi, come me, vogliono vedere Gesù, a quanti sono alla ricerca del volto di Dio; a chi ha ricevuto una catechesi da piccolo e poi non l'ha più approfondita; a tanti che non hanno ancora incontrato Gesù personalmente». «A tutte queste persone - ha messo in evidenza il Papa - noi possiamo offrire tre cose: il VANGELO, IL CROCIFISSO, LA TESTIMONIANZA della nostra fede, povera ma sincera: » Questi tre segni mi hanno colpito tanto: il Vangelo... ma Lo conosco, Lo ascolto? Il Crocifisso, il segno dell' AMORE che ha dato la vita per noi , Lo sto inchiodando ancora con la mia infedeltà, con la mia mancanza di amore? La Testimonianza della mia fede è coerente con la mia vita, le mie azioni? "Vogliamo vedere Gesù... a questa richiesta impegnativa, la mia vita di incertezze, di pigrizia, di aridità,inchiodano Gesù : E' L' ORA DELLA CROCE, la più buia della Storia, ma l' ORA più bella, l' ORA della sconfitta di satana, il principe del male, l 'ORA della salvezza, l' ORA in cui il Figlio dell' uomo è glorificato, l' ORA della Misericordia, della Fecondità!, Questa Ora sta per arrivare, per la salvezza di tutti, nessuno escluso. La morte di Gesù, infatti, è una fonte inesauribile di vita nuova, perché porta in sé la forza rigeneratrice dell'amore di Dio. Immergiamoci in questo Amore infinito, e doniamolo a chi ancora VUOLE VEDERE GESU'...Buon cammino, Don Ulderico e grazie, solo grazie per questi doni che ogni settimana ci arricchiscono. Sono questi i segni del tuo amore, della tua fedeltà, della tua obbedienza, del tuo altruismo, sei tu il segno che ci fa incontrare nella gioia e nel dolore GESU'
Ceroni don Ulderico
Grazie! Mi sà che sei la sola a leggere! Riesci sempre a cogliere il centro! L'ORA dell'amore per noi cristiani sta nella quotidianità del dono di noi stessi!