Di sicuro possiamo dire della nostra fatica personale, di giornalisti, nell’assistere al racconto fatto da altri, di vicende che per ragioni professionali abbiamo seguito e narrato, giorno dopo giorno, per anni. Peraltro con la consapevolezza che quei giorni del 1992 sono stati decisivi per i vent’anni a seguire. Hanno determinato la fine della Prima Repubblica e hanno aperto una fase d’incertezza politico-istituzionale che tarda ancora a chiudersi. Senza averci lasciato in eredità un Paese meno corrotto. Anzi, a giudicare da quello che vediamo, dal susseguirsi incessante degli scandali e delle ruberie, ci chiediamo come abbiamo fatto noi italiani normali, a sopravvivere a tutto questo.
E soprattutto, come tanti di noi, la maggioranza silenziosa degli italiani, abbiamo potuto conservare quel minimo di onestà e di decoro che forse ha salvato il Paese dal naufragio.
Del racconto televisivo si occuperanno altri più esperti di noi e certamente avremo modo di leggere di tutto e di più. Di sicuro, la narrazione seriale restituisce un’immagine di Paese corrotto e corruttibile. Incline ad ogni più basso compromesso morale. Anche i personaggi positivi, o presunti tali, non vengono scavati. Perché il male, come con “Gomorra”, è assoluto. E in quanto tale destinato comunque a vincere.
A impadronirsi dei cuori e degli ascolti televisivi. Secondo quella strada ormai imboccata da una gran parte della produzione culturale italiana che, salvo rare eccezioni, ha mandato definitivamente in soffitta il “lieto fine”.
E ci domandiamo: se un Paese non riesce nemmeno a immaginarlo un “lieto fine”, come potrà mai costruirlo?