Eco internazionale. “La gente deve vedere che in Africa siamo capaci di dare l’esempio e che il potere non è un fine in sé”, ha spiegato Sall, il 17 marzo scorso, annunciando l’intenzione di tenere l’anno prossimo il referendum che potrebbe far anticipare al 2017 le elezioni previste per il 2019. L’augurio che l’eco dell’iniziativa si espandesse non ha tardato ad avverarsi: “Molti leader africani usano l’apparenza della democrazia per mascherare i loro regimi pluridecennali – ha scritto all’indomani della conferenza stampa Ishan Taroor sul ‘Washington Post’ – Quest’anno, senza paura, quattro leader di Paesi africani stanno considerando riforme costituzionali per assicurarsi un terzo mandato al potere. E poi c’è il presidente senegalese Macky Sall”, che Taroor informalmente candida al “Premio Mo Ibrahim”, assegnato dall’omonimo miliardario di origine sudanese a quei leader africani che abbiano saputo assicurare una transizione ordinata lasciando democraticamente il potere. Un riconoscimento che, in otto anni, è stato assegnato solo nella metà dei casi. Naturale quindi che sia stata soprattutto la stampa africana a commentare con toni entusiastici l’annuncio arrivato dal Senegal. “I politici africani devono imparare da Macky Sall”, titolava pochi giorni dopo il portale “Modern Ghana”, definendo la sua “una mossa gigantesca, che eleva lui e la politica africana come su un pinnacolo”. Sulla stessa linea la testata nigeriana “Ventures Africa”, che inserendo il leader senegalese nella “breve lista di coloro che mostrano all’Africa come si governa”, mette l’accento su un tema solo apparentemente marginale. “Questi leader – si legge infatti in un editoriale dedicato alla vicenda – hanno mostrato che lo sviluppo economico dipende dall’esistenza di una solida struttura istituzionale”. Tra gli esempi elencati c’è il Sudafrica, dove Nelson Mandela rinunciò al potere nel 1999, alla fine del primo di due possibili mandati presidenziali: un paragone impegnativo, ma che è stato tracciato anche da una fonte sudafricana autorevole. Il settimanale “Mail and Guardian”, infatti, ricorda come anche la decisione di “Madiba” fosse stata presa “nella speranza che altri leader africani ne seguissero l’esempio”.
Chiese e Costituzione. La speranza del primo presidente sudafricano democratico era destinata ad andare delusa, soprattutto di fronte a casi limite come quelli di Teodoro Obiang Nguema (al potere in Guinea equatoriale dall’agosto 1979) e José Eduardo dos Santos (diventato presidente in Angola a settembre dello stesso anno). Di fronte a simili esempi negativi, appelli al rispetto della prassi democratica e delle Costituzioni sono spesso arrivati dalla Chiesa. Tra le Conferenze episcopali ad aver preso posizione contro il tentativo di un Capo di stato di mantenersi al potere oltre i tradizionali due mandati ci sono quella del Burundi – che il 7 marzo scorso ha invitato Pierre Nkurunziza a rinunciare a candidarsi a giugno prossimo – e quella della Repubblica Democratica del Congo. Qui, lo stesso cardinale arcivescovo di Kinshasa, Laurent Monsengwo Pasinya, durante le proteste di gennaio contro il presidente della Repubblica Joseph Kabila è intervenuto con un comunicato. “Disapproviamo e condanniamo – scriveva il cardinale – qualsiasi revisione della legge elettorale, che prolungherebbe illegalmente le scadenze elettorali del 2016”. Ancora più emblematico l’esempio dei vescovi dell’Eritrea, una delle poche voci che, dall’interno del Paese, riescono ancora a denunciare gli abusi del regime guidato da Isayas Afewerki. Acclamato come eroe della lotta per la libertà e nominato Capo di Stato provvisorio nel 1993, il leader eritreo, da allora, non ha lasciato la carica, né si è mai sottoposto ad elezioni, disattendendo vari annunci di riforme democratiche. Un destino che, sperano tutti, non si ripeta per la promessa di Macky Sall.
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