Più del 70 per cento degli italiani si servono di internet, e il suo uso è cresciuto di quasi il 18 per cento solo nell’ultimo anno, nonostante la crisi economica. Proprio la crisi è la probabile causa della contrazione di altri consumi, come quello dei quotidiani, mentre la televisione è sempre vista dal 97 per cento della popolazione, resistendo così ai profeti di sventura che ne vogliono decretare il tracollo imminente. Sono solo due cifre tratte da 160 pagine di tabelle e commenti che costituiscono il 12esimo Rapporto Censis/Ucsi sulla comunicazione in Italia. Un volume che gli specialisti continueranno a consultare e a confrontare con i precedenti, per cercare di dare senso alle veloci trasformazioni del mondo della comunicazione al tempo della rivoluzione digitale, della rete e dei social network. È il mondo nel quale quasi tutti i giovani, e gli anziani in quantità crescenti, vivono esperienze prolungate di connessione.
Sono molte le caratteristiche che rendono preziosi questi rapporti. La prima è che sono orientati a misurare non i consumi, ma i bisogni degli utenti, le funzioni svolte per loro dai diversi media. L’altra è l’attenzione agli ambienti professionali di chi opera nelle comunicazioni, costretti in questi anni a una travagliata ricerca di competenze del tutto rinnovate, senza le quali non c’è possibilità di lavoro.
Il titolo scelto dal Censis, “L’economia della disintermediazione digitale”, è suggestivo e merita spiegazioni. La disintermediazione digitale altro non è che la possibilità oggi diffusa di ottenere notizie, prodotti culturali come musica e film, o semplicemente di connettersi con altre persone saltando in tutto o in parte la mediazione professionale tradizionale. Le notizie e i contenuti vengono generati direttamente dagli utenti, e raggiungono gli altri utenti direttamente, attraverso le tecnologie: senza mediazione, appunto.
In questo modo le filiere economiche tradizionali vanno in crisi. I giornali e giornalisti, perché i giovani ma non solo loro si informano direttamente su internet, attraverso strumenti come Facebook o Twitter; le stesse televisioni, perché i loro prodotti sono oggetto di circolazione non sempre autorizzata o comunque poco remunerativa sulla rete; e così via. Anche le compagnie telefoniche sono messe in difficoltà da tante applicazioni che fanno a meno di loro. Occorre inventare una nuova economia della comunicazione, occorrono quelli che gli economisti chiamano nuovi modelli di business.
Definito il problema, che qui per forza semplifichiamo ma che in realtà è molto complesso e variegato, si cercano delle risposte. I giornalisti dell’Ucsi, preoccupati per le difficili condizioni della categoria – i giovani giornalisti, nella attuale situazione, vengono spesso sottoposti a un vero e proprio sfruttamento con compensi di pochi euro ad articolo – hanno una loro proposta: “Ribaltare il tavolo”.
Il ragionamento è questo: accade che la notizia in sé abbia un valore sempre minore, perché proviene anche da fonti non professionali, da chi sa perché è stato testimone (e magari non sa raccontarlo) ma anche da chi crede di sapere? È diventato quasi impossibile per il giornalista verificare la veridicità delle sue fonti? Il “copia e incolla” delle notizie è considerato oggi una sorta di diritto inalienabile? Bene, abbandoniamo il modello della notizia come valore in sé. Sostituiamola con qualcosa che solo la competenza, l’esperienza e il ragionamento complesso possono assicurare, qualcosa di garantito dalla credibilità e dalla riconoscibilità dell’autore. Non semplice commento, perché tutti possono commentare, bensì qualcosa dotato di senso, di coerenza, di valori in corretta gerarchia.
I giornalisti, e anche gli editori, devono progressivamente orientarsi a una realtà fatta non tanto di notizie, quanto di offerta alla comunità di riferimento di servizi informativi complessi e innovativi, che rispondano ai bisogni reali, e soprattutto costruiti e continuamente verificati su un sistema di relazioni personali con il pubblico, a vantaggio del pubblico stesso.
Se ci pensate bene, è quello che fa Google. Solo che Google finalizza il suo sistema di relazioni con il pubblico alla raccolta d’informazioni sulle propensioni ai consumi e alla pubblicità personalizzata, a vantaggio soprattutto proprio; ma la stessa cosa si può fare con intenti culturali e sociali, come fa Wikipedia, l’enciclopedia universale in rete; e il percorso si può ripetere in molti altri modi, ambiti e dimensioni, senza dimenticare che la costruzione di un sistema di relazioni personali con il pubblico, vera imposizione della cultura digitale, è essenziale per costruire fiducia e credibilità, e in sua assenza i mezzi tradizionali sono condannati a una lenta emarginazione.
Perché il mondo dell’editoria italiano non intraprende questo percorso? Ci sono resistenze culturali, sia tra i giornalisti sia tra gli editori, forse aggravate dalla difficoltà tutta italiana di far incontrare la cultura umanistica e quella scientifica. Ci si illude, da una parte, che la rete sia questione da tecnici. Dall’altra, che la competenza tecnica sia sufficiente. Invece è indispensabile mettere insieme l’una e l’altra per ottenere risultati. E dunque collaborare, non lavorare da soli, affrontare progetti complessi e innovativi. Non vivere alla giornata. E in genere queste cose risultano più facili a chi comincia da capo piuttosto che a chi ha una realtà vecchia da trasformare.
Giuseppe De Rita, il padre del Censis, ha sintetizzato in una immagine il mondo della comunicazione contemporanea: quello della bulimia. I giovani soprattutto rischiano una sovralimentazione di stimoli non selezionati. Devono reimparare a usare la mediazione, a delegare parte delle loro scelte a chi lo sa fare bene, nel loro interesse, e che sia disposto a rendere conto in ogni momento del come e del perché di quella selezione. Come si vede è un impegno che riguarda tutti, professionisti della comunicazione e grande pubblico.