Di Don Adriano Bianchi
Ci sono momenti in cui stringersi a ciò che più conta e per noi diviene necessario. Tornare alla fonte, guardarsi dentro e ritrovare il senso del cammino. Per i preti questo istante accade, puntuale, ogni anno il Giovedì Santo nella Messa del Crisma quando i segni, le parole, gli sguardi e i sentimenti non possono essere casuali o di circostanza, ma solo veri. Quando la forza del sacramento tocca nell’intimo la scelta del nostro essere sacerdoti, intorno a ogni vescovo con i confratelli, e lì, se siamo sinceri, possiamo rivivere la verità dell’incontro col Cristo che ci ha chiamati.
Lo sento così, fin da quando da seminarista, nella notte del Giovedì Santo presso “il sepolcro” allestito in chiesa dopo la Messa “in Coena Domini”, il mio parroco guidava la preghiera rileggendo e commentando la lettera che Giovanni Paolo II mandava ogni anno in questa occasione.
Papa Francesco, in modo diverso, ci ha offerto questa mattina con lo stessa passione una parola forte che possiamo sentire nostra. Ha parlato al cuore dei preti di tutto il mondo. Ci ha parlato ancora una volta da prete. Ha parlato di stanchezza e riposo. Di quando anche lui è stanco e prega per noi. L’istante di verità passa oggi nella capacità di vivere autenticamente anche questa condizione così umana. Imparare ad essere stanchi e imparare a riposare diviene sostanziale.
Il rischio, pare dire il Papa, è di trasformare la stanchezza in rassegnazione, frustrazione endemica, insoddisfazione costante. Il momento in cui ne possiamo avere la percezione precisa è quando alla fine di ogni giornata raccogliamo la nostra vita di preti e la presentiamo a Dio con le parole di Simeone: “Ora lascia, o Signore che il tuo servo vada in pace”.
Mi ha colpito che il Papa ci abbia ricordato anzitutto la stanchezza della gente. C’è molto del nostro quotidiano in questo. Mille chiamate, mille incontri, mille gesti e parole: la Messa, il gioco coi bambini, il catechismo, l’ascolto delle persone, la visita a un ammalato, il conforto a una famiglia in lutto, la vicinanza discreta a un povero, la bellezza e l’ansia di vivere e condividere tutto questo con una comunità che non sempre comprende e attende, ma a cui il prete non smette di dedicare la vita.
“Questa stanchezza è sana – dice il Papa – è buona” se si gioca sul filo del dono e dell’amore. Direi può essere vivificante se si fa Eucaristica. È vero sentirci stanchi è facile, ma per non sentirci sfibrati e schiacciati il nostro consumarci, il “lasciarsi mangiare” dal popolo deve trovare riferimento nel dono della vita donata di Gesù, l’Eucaristia.
Ma possiamo essere stanchi, restando pieni e gioiosi? Il vescovo Luciano Monari questa mattina ha detto a noi bresciani: “Una ricetta semplice e infallibile di gioia c’è… Se accettiamo cordialmente di essere la spazzatura del mondo (cfr. 1Cor 4,9.11-13), la gioia ci è assicurata; non c’è barba di mondo o di potenze del mondo che possa togliercela”.
È difficile da applicare. La via dell’umiltà rimetterebbe al loro posto le nostre pretese, il desiderio di riuscita, l’ansia da prestazione. Il nemico lo sa e ci sfianca su questo, e questa stanchezza si trasforma facilmente nella stanchezza di noi stessi. La meta nei confronti della vita e del mondo sarebbe un’apertura umile e grata, capace di stupirsi di ogni cosa buona. È un cammino arduo!
Dopo quasi vent’anni di sacerdozio sento che questo è il cammino. Serve, però, qualche fallimento, qualche purificazione, qualcuno a cui appoggiarsi per ricominciare e chiedere la misericordia di Dio. Serve ed è solo grazia.
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