“Il mondo propone di imporsi a tutti i costi, di competere, di farsi valere… Ma i cristiani, per la grazia di Cristo morto e risorto, sono i germogli di un’altra umanità, nella quale cerchiamo di vivere al servizio gli uni degli altri, di non essere arroganti ma disponibili e rispettosi. Questa non è debolezza, ma vera forza! Chi porta dentro di sé la forza di Dio, il suo amore e la sua giustizia, non ha bisogno di usare violenza, ma parla e agisce con la forza della verità, della bellezza e dell’amore” (Messaggio pasquale, 5 aprile 2015). All’indomani della Pasqua le parole di Francesco fotografano la condizione di un mondo che ha assistito attonito alla tragedia del campus universitario di Garissa con il martirio di 148 giovani cristiani. L’appello del Papa non incita allo “scontro di civiltà” e neanche si adegua al mutismo e al linguaggio felpato delle diplomazie internazionali. Chiama per nome le cose senza incitare alla “guerra santa”, magari travestita da inconfessati interessi occidentali. Emerge così quella “differenza” del cristianesimo che è la via migliore di tutte e che probabilmente, a lungo andare, non può lasciare indifferente il nostro mondo, per quanto distratto e annoiato.
Ritrovare in mezzo alla barbarie di questi giorni la consapevolezza e l’orgoglio dell’identità cristiana, vuol dire riprendere l’iniziativa e stare al mondo senza rinunciare al proprio contributo di verità, di amore e di bellezza. Proprio questa è la “pretesa” dell’ormai prossimo Convegno ecclesiale nazionale di Firenze (9-13 novembre 2015) che intende ripresentare a tutti “il nuovo umanesimo in Gesù Cristo”. Non sarà una riflessione asettica su questa nostra condizione storica tormentata da nuovi fondamentalismi religiosi e da antichi fenomeni di ingiustizia, ma un’occasione per rileggere insieme l’ora presente e introdurvi “i germogli di un’altra umanità”. La presenza del Papa al Convegno prevista per il 10 novembre, che comincerà la sua intensa giornata da Prato per poi giungere a Firenze, offre la cifra interpretativa più giusta: si vuol guardare “dal basso verso l’alto” la condizione umana di oggi, a partire da una città multiculturale e segnata dalla crisi. Lo sguardo rasoterra non significa abbandonare la pretesa di offrire al mondo il contributo della fede, ma sintonizzarsi adeguatamente sul concreto per poi essere aderenti nella proposta. Proprio l’ascolto del mondo contemporaneo, che rimanda all’atteggiamento né subalterno né aristocratico della Gaudium et Spes, è stata la sensibilità fin qui espressa nella preparazione all’appuntamento fiorentino, grazie alla relativaTraccia.
In essa sono state esemplificate cinque vie che intendono descrivere il percorso che attende la Chiesa italiana per essere dentro la società un elemento di sviluppo e di cambiamento dell’esistente. Dire “vie” evoca subito un approccio concreto ed esigente che non si accontenta di analisi sociologiche e si lascia sfidare dall’offrire soluzioni possibili e a portata di mano. La prima è uscire, cioè decentrare il modo abituale di guardare alla realtà che ci colloca sempre al centro mentre le cose stanno diversamente. Questa via significa imparare a guardare le cose da vicino, senza frapporre i nostri pregiudizi consolidati e lasciandosi misurare dalla realtà che è sempre più stimolante delle nostre idee su di essa. Percorrere questa via vuol dire ritrovare il realismo che non ci consegna ad astratti principi e si lascia stanare dalla complessità di una cultura che annaspa, sotto l’impulso di una tecnica e di una economia che snaturano gli esseri umani.
Poi c’è la via dell’annunciare che indica la missione della Chiesa chiamata a dar voce al Vangelo di cui molti hanno perso il gusto, confondendolo con una delle morali e delle ideologie a disposizione nel mercato del sacro. Camminare su questa via significa riproporre il volto autentico di Dio come è testimoniato dalla vicenda di Gesù di Nazareth consentendo quella conoscenza di prima mano che sempre affascina e convince anche i più lontani. Come annota infatti, l’Evangelii Gaudium: “Tutta la vita di Gesù, il suo modo di trattare i poveri, i suoi gesti, la sua coerenza, la sua generosità quotidiana e semplice, e infine la sua dedizione totale tutto è prezioso e parla alla nostra vita personale. Ogni volta che si torna a scoprirlo, ci si convince che proprio questo è ciò di cui gli altri hanno bisogno…” (265).
Quindi c’è la via dell’abitare che tradisce la scelta di una condivisione non episodica o di facciata, ma una vera adesione alla serie dei problemi sul tappeto con l’impegno a porvi rimedio. Il cattolicesimo italiano si è sempre distinto per il suo carattere popolare, cioè di immersione dentro le fatiche e le sofferenze della gente. Questa strada va percorsa ancora grazie alla capacità della comunità cristiana di essere là dove molti se ne vanno, garantendo presidi di umanità e di socialità laddove anche le istituzioni tendono a battere in ritirata. Non sono solo le parrocchie sempre dislocate nei nuovi quartieri-dormitorio ad essere chiamate in causa, ma anche e ancor prima la capacità di pensare alla città. Ciò sarà possibile solo grazie a persone che facciano dell’impegno politico un’occasione di trasformazione al di là di facili populismi e di abituali conservatorismi.
Ancora la via dell’educare ci si para davanti a ritrovare la strada maestra di concentrarsi sulla formazione delle persone e delle coscienze prima e al di là di altri pur necessari investimenti. La qualità viene sempre prima della quantità e soltanto un’educazione che insegni a pensare criticamente ed offra un percorso di maturazione nei valori abilita ad un esercizio della libertà che resta la meta della vita umana, anche se spesso contraddetta da sempre nuove e sofisticate contraffazioni.
Infine ci si imbatte nella via del trasfigurare che svela una maniera di guardare alle cose che non è prigioniero dei dati di fatto e si lascia ispirare da un’altra percezione che fa vedere oltre le apparenze. Corollario di questa possibilità è un diverso rapporto con il tempo che va sottratto alla presa totalitaria del fare e va ricondotto nell’alveo del contemplare, non senza momenti di pausa e di interruzione del meccanismo della produzione che ci rende poi dei semplici consumatori a nostra volta. Da questo punto di vista la domenica appare come una battaglia di civiltà prima ancora che di spiritualità perché restituisce l’uomo alla sua nativa capacità di vivere per vivere e non semplicemente per lavorare.
Camminando si apre cammino! L’augurio è che incrociando le vie di Firenze sappiamo tornare ad interrogarci su ciò che ci rende più umani e così migliorare non solo noi stessi, ma perfino l’ambiente in cui siamo immersi. Tornando a “riveder le stelle” come suggerito dal poeta che ha immortalato quell’umanesimo concreto del suo tempo. Che spetta a noi oggi reinventare insieme.