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Stanchi di sé? La cura è l’altro

Di Marco Testi
Il riferimento di papa Francesco alla stanchezza – e al riposo- dei consacrati ha suscitato molto interesse, forse perché il tema è meno indolore di quanto si pensi. E non solo legato ai preti. Perché la stanchezza ci riguarda tutti, a cominciare da quelli che fanno lavori massacranti, per finire a quelli che sono sottoposti a una eccessiva esposizione mediatica, o a chi deve affrontare uno stress legato ad attività intellettuali che costringono a concentrarsi un po’ troppo su se stessi. Il pensiero non sottopone a carichi di lavoro durissimi, come in miniera o ai ritmi alienanti della catena di montaggio, ma nasconde diverse insidie. E il pontefice non poteva ignorare questa dimensione che riguarda la fondamentale realtà antropologica del fare cultura.
La stanchezza di sé fa parte di questa realtà. È un campanello d’allarme che ci avverte della prossimità di un pericolo sempre in agguato: l’insoddisfazione, che a sua volta proietta nella nostra mente disistima di sé, nostalgia di passati mitizzati, malinconia e tendenza a pensare che sarebbe stato meglio fare altre scelte. Il rischio di pensare di aver fallito è dietro l’angolo. Soprattutto perché alcuni messaggi subliminali dei media – non immediatamente evidenti- non ci aiutano, anzi. L’ansia da successo non è più quella legata all’auto-gratificazione professionale, ma ha a che fare con la scalata sociale e con la conseguente visibilità mediatica, che talvolta investe negativamente anche le aspettative affettive. Un cane che si morde la coda.
La stanchezza di cui parla il pontefice è quella di chi si è troppo caricato di aspettative o di chi, soprattutto nei lavori intellettuali, si è troppo auto-referenzializzato. È la solitudine di chi è abituato a pensare non solo agli altri, come nel caso dei preti in situazioni difficili, ma anche e soprattutto a sé: lo scrittore, l’artista, il poeta, il giornalista, il saggista, l’intellettuale, chi si rifugia nella creatività per sopportare il peso di una vita non sempre benigna. L’uomo si è creato intorno un muro che lo difende, è vero, ma che lo rende anche prigioniero. La delusione di sé avvolge lentamente, come una ragnatela. Può essere improvvisa, come nel caso di un padre di famiglia che perde il posto di lavoro, ma si può presentare anche sotto le spoglie del rimuginìo continuo di chi fa i conti con i dubbi, di chi è sottoposto ad un costante bombardamento di idee spesso contraddittorie, con il rischio di un allontanamento dalla realtà.
Il riposo dovrebbe riguardare soprattutto questo lato più oscuro della vita di alcuni di noi. L’autoreferenzialità di cui parla il pontefice è una delle porte della solitudine e del deserto. La radice di questa ultima parola è il “desero” latino, verbo che indica non sabbia o rocce, ma mancanza di legami. Questo è il rischio più subdolo. Se il pericolo viene dall’assenza di rapporti, se non quello con se stesso, allora la cura è riposare da questa auto-referenzialità, che è ambigua, affascina e talvolta risveglia dolci ma ambigui fantasmi.
La cura è l’altro.
Non ce lo dice solo la fede, ma la vita. Il riposo è essere-per-l’altro, trovare quiete nella felicità che si dona. Alcuni passi della grande letteratura ce lo dicono. Fra Cristoforo non conosce tregua, perché il suo riposo è nella speranza che gli altri trovano in lui. L’Innominato trova finalmente riposo dai suoi fantasmi nell’aiutare gli altri. Il Dio nascosto di Chesterton si presenta ai suoi antichi nemici che gli chiedono “Chi e che cosa sei tu?” con parole apparentemente incomprensibili: “Io sono il giorno del riposo. Io sono la pace di Dio”.
Ma non bisogna andare per forza indietro nel tempo. La cura è anche il titolo di una giustamente celebre canzone di Battiato che dice all’altro-da-sé “sei un essere speciale”.
La cura del riposo sta nel suo essere in cammino verso l’altro. Il che non permette calcoli di tempo e programmazioni di vacanze esotiche. Quando sei stanco di dare, una branda è molto più riposante di tutte le più raffinate alcove d’occidente.
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