“Una nuova Srebrenica”: ha riaperto una triste pagina della recente storia europea il portavoce di Unicef Italia, Andrea Iacomini, per richiamare l’attenzione della comunità internazionale sulle tragiche condizioni del campo profughi palestinese di Yarmuk, alle porte di Damasco in Siria, sotto assedio da oltre due anni da parte delle truppe fedeli al presidente Assad, e ora in larga parte sotto il controllo delle milizie dello Stato islamico supportate da quelle del fronte Al Nusra, affiliazione siriana di Al Qaeda. Yarmuk, che risale al 1957 quando fu costruito per accogliere i palestinesi in fuga dalla guerra arabo-israeliana del 1948, è uno dei luoghi simbolo della tragedia palestinese. Prima del conflitto siriano (2011) era popolato da circa 150mila persone, oggi ne conta 18mila, con tutto il loro carico di disperazione e abbandono. A difenderli sono rimasti i combattenti palestinesi delle brigate Aknaf Bait Al-Maqdes, nate da una costola di Hamas, e altri aderenti a gruppi armati vicini a Fatah, due fazioni concorrenti ma ora unite contro il nemico comune, il califfo al-Baghdadi. I combattimenti sono strada per strada, porta a porta e le testimonianze di chi, in qualche modo, è riuscito a fuggire parlano di esecuzioni sommarie, di rapimenti, decapitazioni, di orrori senza fine che vanno a sommarsi a una drammatica emergenza umanitaria, tanto grave da far dire al funzionario dell’agenzia Onu per i Rifugiati (Unrwa),Chris Gunness, “a Yarmuk si vive al di là del disumano”.
Senza acqua, medicine, cibo, in mezzo alle macerie e sotto le bombe: l’istantanea che meglio descrive le condizioni di vita di questo sobborgo di Damasco è quella apparsa tempo fa sui giornali di tutto il mondo: una lunga, sterminata fila di giovani, donne, anziani, bambini, in coda per il pane necessario a sopravvivere. All’orrore di ieri si aggiunge quello di oggi con le immagini di bambini – ce ne sono 3.500 ancora intrappolati che rischiano di essere feriti o uccisi – che, facendosi spazio tra i grandi, raschiano il fondo di grandi pentole per rimediare il poco cibo rimasto. Ma la tragedia di Yarmuk non è di oggi: “Esattamente lo scorso 7 aprile 2014 – afferma Iacomini – denunciai che da 187 giorni non si riuscivano a far entrare aiuti umanitari nel campo e che c’erano evidenze di gravi casi di malnutrizione acuta tra i bambini. Oggi a distanza di un anno verrebbe da chiedersi ‘dove eravate’? È una situazione drammatica peggiorata dall’ingresso di Isis che non può essere sempre il pretesto per raccontare drammi che vengono da lontano, il campo è sotto assedio da più di 2 anni”.
“Dove eravate?”: è la stessa domanda che si potrebbe rivolgere alla comunità internazionale, ma in modo particolare all’Europa e alle Nazioni Unite, quando nel 1995, a Srebrenica, le bande serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić e dalla “Tigre Arkan” Željko Ražnatović, sterminarono 8.372 bosniaci di fede musulmana. Il tutto mentre la piccola città, enclave bosniaca circondata da territori abitati da serbi bosniaci, costituiva un’area di sicurezza controllata dalla Forza di protezione delle Nazioni Unite (Unprofor). I caschi blu olandesi del battaglione “Dutchbat” che presidiavano la zona non fecero nulla per prevenire lo sterminio. Anzi. Fecero uscire dai loro compound a Potocari, alla periferia di Srebrenica, 300 bosniaci che vi si erano rifugiati, consegnandoli di fatto ai carnefici. Era il 13 luglio del 1995. Per questo motivo il Tribunale dell’Aja ha ritenuto l’Olanda “civilmente responsabile” per la morte di quegli uomini. Il doloroso ricordo di quei giorni oggi riposa nel memoriale di Potocari, dove migliaia di lapidi allineate e inascoltate invitano a non distogliere lo sguardo da quanto accaduto. A non dimenticare il peggiore sterminio di massa, un vero e proprio genocidio, compiuto sul suolo europeo dalla Seconda guerra mondiale.
L’immobilismo del mondo ieri a Srebrenica, è lo stesso di quello di oggi a Yarmuk. Una comunità internazionale incapace (?) di difendere, allora come oggi, i più deboli, i più piccoli, i più vulnerabili. Incapace di assumere decisioni nemmeno per garantire un corridoio umanitario necessario per salvare migliaia di vite umane allo stremo fisico e in balia di una violenza inaudita. La domanda “Dove eravate?” oggi continua a rimanere inevasa. Fino al prossimo massacro.