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“Con una crisi che dura da 7-8 anni è un po’ inevitabile”

Di Luigi Crimella

Crescono, per diverse ragioni, le difficoltà sociali. E ciò che colpisce di più l’opinione pubblica è il dilagare della microcriminalità, in particolare di furti nelle abitazioni, taccheggi, piccole rapine, truffe ai danni di anziani e persone sole. Lo scorso anno si è calcolato che le case scassinate e depredate sono state oltre 250mila, con una media di circa 690 effrazioni ogni giorno. Non più del 3% dei responsabili viene assicurato alla giustizia e tra la gente c’è rassegnazione: in molti dichiarano di non aver più fiducia nella giustizia e così si arriva a non fare nemmeno più la denuncia. Per approfondire questa situazione, abbiamo intervistato il politologo dell’Università di Trieste, Paolo Feltrin.

Professore, ma l’Italia è davvero messa così male quanto a criminalità?
“Con una crisi che dura da 7-8 anni è un po’ inevitabile che questi fenomeni siano in aumento, anche se forse vengono percepiti in maniera addirittura più drammatica del dovuto. Può sembrare banale, ma la prima soluzione sarebbe che la crisi finisca”.

I governi, non solo quello italiano, ci stanno provando, ma i risultati appaiono lenti. Che fare nel frattempo?
“Bisogna tentare di dare qualche risposta, almeno per infondere un po’ di fiducia tra i cittadini. Una scelta potrebbe essere quella di ‘mostrare la faccia cattiva’, o se si preferisce ‘fare la voce grossa’. Coloro che delinquono potrebbero intimorirsi e magari cambiare abitudini, se colgono che l’autorità non mostra una faccia troppo permissiva, ma anzi mette in atto azioni che permettono di prendere in flagranza di reato un numero crescente di piccoli delinquenti”.

Ma come attuare ciò, quando c’è una forte corrente di pensiero favorevole alla depenalizzazione dei reati minori?
“Bisogna che si accetti un irrigidimento delle regole, e non un suo allentamento. Ciò vale non solo per i reati contro le persone e i patrimoni, ma anche per i comportamenti a ‘bassa devianza’, a volte lievi ma significativi, quali gettare le carte per strada, disperdere immondizia, parcheggiare abusivamente dove non si potrebbe. Non sempre la cittadinanza è disposta ad accettare queste cose. Se si facesse un viaggio negli Usa o in Gran Bretagna, si capirebbe cosa intendo dire”.

È certamente questione di educazione civica, ma i furti nelle case stanno terrorizzando la gente, perché avvengono dovunque, e sono imprevedibili.

“È vero, ma anche qui occorre un cambio di comportamenti: bisogna imparare a proteggere di più la propria casa. Dobbiamo accettare l’idea che non viviamo in un mondo ‘ideale’, di brave persone, e quindi dotarci di sistemi di allarme, porte blindate, deterrenti vari quali telecamere e sirene. La politica dovrebbe adottare strategie ‘di annuncio’, quella che definivo ‘voce grossa’, e i cittadini di sistemi di difesa. È una questione di puro realismo”.

Con un clima del genere è anche facile prendersela con le minoranze, ad esempio i Rom. Che dire al riguardo?
“Che ci siano minoranze marginali, lo sappiamo bene. In qualsiasi città Usa il piccolo Bronx lo si trova subito. Non metto in discussione i campi Rom, ma devono subire una vigilanza molto più stretta di qualsiasi altra parte della città. In pratica deve passare il messaggio: ‘Io so che tu potresti essere un potenziale delinquente minore, in quanto non hai una fonte di reddito certo e regolare. Sappi che sei sotto controllo da mattina a sera per impedirti di delinquere, qualora tu volessi farlo’. Ciò si potrebbe ottenere con video vigilanza sui campi, regole ferree e ‘abbaiando’ molto con le parole, oltre che facendo controlli continui di polizia”.

Ma non si darebbe vita a un sistema troppo rigido?
“No, sarebbe una convenzione accettata da tutte le parti in causa. Lo Stato direbbe: per il fatto che hai scelto di vivere in questo modo, ti poni nella condizione di essere sospettato e accetti un livello di vigilanza maggiore di qualsiasi altro cittadino. Ciò varrebbe non solo per i Rom ma anche per le altre comunità di immigrati, e oggi direi anche per il terrorismo islamico”.

Da certi Paesi dell’Est dicono che preferiscono venire in Italia perché da noi c’è “buonismo” e non va in carcere quasi nessuno. Ha senso, allora, parlare di “svuota-carceri” e di depenalizzazione?

“Sono scelte che andrebbero valutate con molta attenzione da avvocati, giudici e forze di polizia. Si rischia sempre, con le migliori intenzioni, di fare la politica sbagliata in un senso o nell’altro. Personalmente sono dell’avviso che invece del carcere occorrerebbe incrementare le sanzioni pecuniarie. Pensate all’effetto avuto dalla ‘patente a punti’: all’inizio fu accolta con scetticismo, ma poi ha dimostrato di funzionare, perché tocca il portafoglio e il diritto di poter viaggiare. Insomma, servono misure più semplici, immediate e convincenti”.

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