DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del Monastero Santa Speranza sulle letture di domenica 19 Aprile.
Il tempo pasquale che la Chiesa, come comunità dei credenti, è chiamata a vivere e a celebrare nella Liturgia è il “prolungamento” per quaranta giorni del giorno di Pasqua;
la luce e la gioia della Resurrezione si espandono e prendono dimora dentro la nostra vita così come sulla terra la luce ha il sopravvento sul buio e la vita della campagna si risveglia rallegrandola di colori nuovi e brillanti. E noi, anche questa domenica, andando alla messa, saremo riportati a quel primo giorno di Pasqua e ci troveremo, insieme ai discepoli, a vivere l’esperienza del Signore Risorto.
Ascolteremo, dal vangelo di Luca, il brano che segue quello, forse più noto, dei discepoli di Emmaus: senza passare per le porte, Gesù appare in mezzo ai discepoli e, per vincere il loro turbamento, li invita a guardarlo e toccarlo e, persino, chiede se hanno qualcosa da mangiare e mangia davanti a loro (24,36-43). In tutti e quattro i vangeli, quando il Risorto appare in mezzo ai suoi sono registrate le loro reazioni di paura e di difficoltà a riconoscerlo: sarà che questi discepoli erano proprio lenti e duri di comprendonio? O, invece, fanno così perché hanno capito che il loro Maestro, col quale hanno vissuto, camminato, mangiato e bevuto insieme è veramente Dio?
Che effetto farebbe a noi, oggi, trovarci alla presenza del Signore Vivente?
Credo che il timore e una certa “gioiosa” incredulità siano delle reazioni normali di chi si trova davanti al mistero di Dio e, coloro che ne hanno fatto esperienza, come i Santi, ci confermano che più ci si avvicina a Dio, tanto da averne una esperienza quasi tangibile (come il vedere/toccare del brano evangelico) tanto più si ha consapevolezza della “distanza” tra l’uomo e Dio. Ripeteva Francesco d’Assisi, rapito nella contemplazione di Dio sul monte della Verna, dove, come scrisse Dante, da Cristo prese l’ultimo sigillo, cioè le stimmate: «Chi sei tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo?».
Le nostre categorie umane, i nostri schemi cognitivi razionali, basati su una conoscenza ed esperienza visibile, corporea, tangibile, non sono sufficienti per conoscere Dio e, soprattutto, per comprendere (anche nel senso di possedere) non solo il mistero di Dio, ma anche quello che c’è in ogni uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, e redento da Cristo mediante la partecipazione al suo mistero di morte e risurrezione.
Come cambierebbero le nostre relazioni se fossimo consapevoli che la persona che mi sta di fronte, per quanto io possa conoscerla, è portatrice di un mistero davanti al quale si può solo restare in contemplazione, con timore e tremore, che non si può possedere né usare né violare, ma, solamente amare, così com’è.
«Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri» (1Gv2,4. 3,23).