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VIDEO Iraq, all’inno dell’ISIS risponde il canto di pace delle vittime

“Presto… presto rimarrete sorpresi! Come un fulmine a ciel sereno vedrete le battaglie sorgere sulle vostre terre”: comincia così l’inno dello Stato islamico (Is), che da qualche giorno circola nella Rete in versione italiana con il titolo di “Presto presto”.
Alle tipiche note mediorientali vengono affidate parole che inneggiano ai coltelli che hanno il compito di “sventrare e sgozzare: che magnifico farlo attraverso un coltello assetato di vendetta!”. Note condite da immagini di boia, di addestramenti, di aerei in fiamme e combattenti in azione. In una escalation di minacce sempre più chiare: “Mi hai dichiarato guerra con l’alleanza della miscredenza, goditi dunque la mia punizione”; “più a lungo persisterai a combattere, più soffrirai”; “da te verremo con scempio e morte, con rabbia e silenzio”; “noi di sangue le ampie strade ricopriamo grazie ai coltelli affilati che tranciano le gole ai cani in raduno quando si ammassano”. Chiaro l’intento dello Stato islamico d’incitare al “Jihad”, la guerra santa, anche i musulmani italiani o che vivono in Italia, e di fare proselitismo online. Ed è impossibile, leggendo il testo violento di questo inno, non tornare col pensiero al dramma che tante popolazioni, musulmane, cristiane, yazide e di altre minoranze, stanno vivendo sulla loro pelle a causa della ferocia e della brutalità – ogni giorno ne conosciamo una diversa – dei miliziani del presunto Califfato.

Inneggiano i carnefici. Ma cantano anche le loro vittime. Ed è un canto diverso, con immagini di ben altro tenore e spessore. Una risposta di pace al coltello grondante di sangue che arriva attraverso il sorriso di tanti rifugiati, cristiani in questo caso, ma potrebbero essere di qualunque altra fede, che cantano “We are one”, “Siamo una cosa sola”. Non ci sono immagini violente, sangue e morte ad accompagnare le sua parole ma solo le tende dei campi profughi di Erbil (Kurdistan), dove decine di migliaia di cristiani, yazidi e di altre minoranze sono riparati per sfuggire alla mattanza dell’Is. “Siamo una cosa sola”: è il titolo del brano inciso dalla band londinese “Ooberfuse” con la collaborazione dell’arcivescovo caldeo di Erbil, Bashar Matti Warda, nel quale si mette in evidenza la difficile situazione dei cristiani in Iraq. La persecuzione si fa canto e musica, non per inneggiare alla violenza, alla guerra, ma per ribadire che anche “nel cuore della notte più buia cerchiamo la luce più pallida con la speranza di poterla vedere. In questa speranza, nella nostra fede, nel nostro amore, siamo una cosa sola e non siamo soli”.

Il brano, che viene aperto con il Padre Nostro recitato in aramaico, la lingua di Gesù, dallo stesso arcivescovo Warda, è stato scritto da Hal St John e Cherrie Anderson, i due componenti della band, dopo una recente visita ai campi dei rifugiati a Erbil. “Siamo rimasti sconvolti nel vedere le condizioni di vita di tanta gente che non ha più nulla e che dipende dagli altri per vivere e mangiare – raccontano al Sir -. Essi vorrebbero tornare alle loro case, a una vita normale, ma quando? Restano la speranza e la fede a tenerli in vita ed è ciò che abbiamo voluto cantare”. Le note ritmate accompagnano bambini che ballano, che studiano, famiglie impegnate nella vita quotidiana del campo, e le lacrime di un padre che non sa più come garantire ai propri figli una vita sicura e stabile come “quella di tanti bambini in altre parti del mondo”. “Abbiamo una speranza che vive e non potrà mai morire – sono parole del brano – fissiamo il nostro sguardo su ciò che non si vede, oltre il cielo, e beviamo dalla fontana che mai si seccherà… Ogni lacrima sarà spazzata via quando sentiremo il Suo abbraccio”.

Il 18 aprile, il video di “We are one” (clicca qui) è stato diffuso nel corso di una veglia notturna a Manchester, organizzata da Aid to the Church in Need (Aiuto alla Chiesa che soffre), ospitata dalla comunità gesuita presso la Holy Name Church.
Si è pregato e cantato non solo per i cristiani iracheni ma anche per le altre comunità perseguitate nel mondo, in Siria, Nigeria, Pakistan, Egitto e Ucraina. “La musica sveglia il tempo” scriveva Thomas Mann. Chissà non riesca anche a scuotere la coscienza intorpidita di un mondo che continua a fare da spettatore a così tanta barbarie.

Arcivescovo