Tacitare la coscienza esprimendo lo sdegno? Colpevolizzarsi? In fin dei conti sarebbero solo degli anestetici che ci consentirebbero di continuare la nostra routine quotidiana senza nulla cambiare.
Il fatto (e i fatti) sono ben noti, quanto preoccupa è la dismisura esponenziale della loro crescita. Sembrerebbe che, ormai, si sia superata quella soglia di decenza che rimane anche nell’indecenza, quella sorta di codice di onore che permane anche nelle azioni inique e che, forse, può far sperare in un ravvedimento, in una conversione. Francesco definisce il popolo dei barconi, “vittime nostri fratelli che cercavano una vita migliore”.
Vittime di un lurido commercio che garantisce guadagni sicuri e forti, indipendentemente dai flussi della Borsa e dalla qualità della merce che, quand’anche scomparisse, avrebbe ottenuto l’esito migliore.
Fratelli? Se tali fossero qualche mossa l’avremmo già in atto. Se non erigiamo muri di cemento cinti di filo spinato, stiamo diventando noi muri che non vogliono sentire e non vogliono vedere i “nostri” che sono “affamati e perseguitati, ma anche feriti e sfruttati, vittime di guerre”.
Chi provoca questa situazione? È troppo comodo parlare di società e nazioni, di organizzazioni e di guerre, e rimanere nell’astratto, bisogna avere il coraggio di indicare i volti di chi, cinico, determina tutto lo sfruttamento. I guadagni quali canali percorrono? I “perché” rischiano di librarsi nell’aria ed evaporare: basta lasciar parlare e poi tutto rimane esattamente così come era.
Certamente lo sguardo di Francesco è orante – “assicuro per gli scomparsi e le loro famiglie il mio ricordo nella preghiera” – ma sarebbe ripiegato su stesso e sterile se non reso concretezza: “Rivolgo un accorato appello affinché la comunità internazionale agisca con decisione e prontezza, onde evitare che simili tragedie abbiano a ripetersi”.
Le immagini che possiamo guardare alla Tv o che captiamo nel web ci lasciano indifferenti? Come possiamo incrociare gli sguardi dei nostri figli, delle mogli, degli amici quando lo sguardo terrorizzato di chi sta affogando non ci interpella? Fame e sete dinanzi alle nostre merende che sfamerebbero per una giornata un povero migrante dallo stomaco pari al nostro? Lo stupro che regna anche su di un barcone affollato, gremito di centinaia di persone considerate prede, si può tollerare?
Gli schiavisti odierni ripropongono, senza essere fermati in tempi di gps, droni e satelliti, la tratta dei neri tanto deplorata.
Si è smarrito, non perso spero, il significato della persona umana, la sua relazione personale con il Creatore, ma anche la solidarietà che, per chi non crede, lega umano ad umano.
Come possiamo recuperarlo? Nelle nostre relazioni quotidiane improntate non dall’ombelicocentrismo, non dal bancomat, ma dalla cura per l’altro, per l’altra, per chi sta vicino e soffre una situazione di disagio e di dolore.
Non basta scuotere i grandi, i potenti, le comunità internazionali o locali. Non basta neppure dare una mano (magari ci fosse qualche volta!), è necessario dare il cuore, cioè tutto se stessi, sprecarsi senza misura. Nel ristretto ambito in cui ciascuno e ciascuna vive che però è cellula generativa di relazione nuova, di mutamento che, forse impercettibilmente, ma realmente incide e giunge anche ai migranti, ai naufraghi. A tutti, anche a chi si rotola nel fango dello schiavismo, dello scafismo e gode del denaro sporco: non escludiamo nessuno dalla lista, tocchi anche il cuore di chi dirige e pianifica tutto dal bordo di una piscina in luoghi da favola ma si pasce di cinismo.
La storia davvero non si dimostra “maestra di vita” in automatico, richiede che facciamo nostro il monito e usciamo da una tragedia che, per sempre, ci avrà segnati. Lo sterco del diavolo copre e inquina ormai le coscienze. Speriamo solo di essere capaci di liberarci dalla sua lordura. Cristiana Dobner