Ai nostri tempi, era il secolo scorso, si chiamava abbigliamento Unisex. Constava di una serie di capi passe-partout che potevano essere usati indifferentemente da lui o da lei: jeans, camicie, giacche e via vestendo. Ai tempi moderni hanno deciso di rinfrescare un po’ il concetto e, cavalcando una tendenza mediaticamente molto in voga, l’hanno buttata sul politicamente corretto puntando sulla neutralità.
Dopo un radicale restyling non solo edilizio, il grande magazzino Selfridges a Londra ha trasformato ben tre piani del suo negozio in Oxford Street in reparti d’indumenti “neutri” rispetto al genere di chi li indossa. Sotto il nome di “Agender”, l’obiettivo del progetto (“concept” per gli addetti ai lavori) è quello di consentire ai clienti di scegliere il modo in cui vestirsi “senza limitazioni o stereotipi”, in una “propensione alla moda” che “trascende i tradizionali concetti di ‘per lui’ e ‘per lei’”. Le aree “Agender” vedono il coinvolgimento di marchi con una lunga tradizione di abbigliamento “non di genere”, come Commes des Garçons, Maharishi e Yohji Yamamoto, di altre firme meno conosciute e di un paio di couturier rinomati come Jeremy Scott e Rad Hourani – unico stilista a presentare una collezione unisex alle sfilate dell’alta moda a Parigi. È presumibile, ha scritto una giornalista del settore, che tutti costoro trovino piuttosto liberatorio poter disegnare abiti per un solo sesso. Può essere, ma alla fine come sarà mai questo abbigliamento “privo di genere”? Gonne, pantaloni, magliette, maglioni, felpe, trench, giacche, berretti, scarpe, portafogli e accessori assortiti. Forme? Lunghi, corti, stretti, larghi, lisci, imbottiti, vita bassa, vita alta, aderenti, fuori misura. Colori? Dal classico bianco o nero alle fantasie geometriche, dalla tavolozza dei pastelli alla forza dei colori acidi, dall’onnipresente mimetico al mai dimenticato oro.
Per farla breve, dopo aver compulsato il fornitissimo catalogo online, dove gli stessi abiti sono presentati contemporaneamente su modelli maschi e femmine, resta un dubbio: che cosa ci potrà mai essere di così inconsueto nel reparto “neutro” frequentato, si legge, molto più dalle donne che dagli uomini? In altre parole, se qualcuno si sta chiedendo cosa ci sia di diverso tra questi e altri capi di abbigliamento, onestamente non abbiamo una risposta. O forse sì: il marketing. Insomma, quello che schiere di adolescenti non figli unici fanno senza pensarci troppo, ossia pescare nei cassetti altrui promuovendo autonomamente contaminazioni tessili inedite e anarchiche, viene qui rimescolato e utilizzato per finalità sicuramente commerciali e plausibilmente culturali.
Nei giorni della polemica sollevata da “Re” Giorgio Armani sul modo di abbigliarsi di una certa parte del mondo gay (“Un omosessuale è uomo al 100% non ha bisogno di vestirsi da omosessuale”!), sarà interessante verificare se la moda “genderless” avrà una reale presa sui consumatori, oppure se ci si continuerà semplicemente a vestire indifferentemente come ci piace, oppure ancora se assisteremo all’adattamento di uno stile per soddisfare il sesso che tradizionalmente non lo indossa. Ma con la moda certi automatismi non sono scontati, o meglio, finiscono negli armadi dei reali utilizzatori: noi. Dagli esordi degli anni ‘60 e fino all’altro ieri l’abbigliamento unisex aspirava a “sfocare e attraversare i confini di genere”, ma alla fine l’uniformità si è espressa attraverso una decisa inclinazione maschile dell’abbigliamento femminile e basta. Per quanto riproposta più o meno a ogni stagione su molte passerelle, la gonna da uomo non ha avuto grande fortuna al di fuori dei confini della Scozia o del Sud-Est asiatico. Nei limiti del buon gusto, le persone dovrebbero indossare ciò che li fa sentire a proprio agio a prescindere da sesso, età, classe o qualunque altra variabile. Farsi confinare a far compere in un reparto prefabbricato artificiosamente, sembra essere la negazione di quella libertà di scelta di cui altrove si invoca, giustamente, il rispetto.